Corte di Cassazione
Violenza sessuale: titolare di una ditta condannato per abuso di autorità
La Terza Sezione della Suprema Corte ha affermato che nel concetto di "autorità" di cui all'art. 609 bis del codice penale (violenza sessuale), rientra anche ogni potere di supremazia di natura privata utilizzato per costringere la vittima a compiere o a subire atti sessuali.
Quell’uomo, titolare della ditta, era un accorto pianificatore che proponeva lavoro a giovani prede e le faceva cadere nella sua ragnatela.
La Cassazione, sezione terza penale, con sentenza n. 36704 del 3 settembre, ha confermato la sentenza d’appello che aveva condannato l’uomo a quattro anni (oltre pene accessorie e risarcimento) per il reato continuato di violenza sessuale aggravata e altri reati minori (sequestro e lesioni personali) nei confronti di varie donne e soggetti minori di sesso femminile.
Il modo di operare era sempre lo stesso. La scusa era sempre quella di un contatto, spesso via email, con donne giovani ed inesperte sul piano relazionale, in vista di un possibile futuro rapporto di lavoro, mentre le “toccatine” precedute da immancabili complimenti sull’aspetto fisico delle ragazze e frasi di dubbio gusto (sempre allusive ad approcci sessuali) erano il leit motiv.
Le giovani ragazze poi, in preda ad un vero e proprio terrore, erano con le spalle al muro, bloccate alle prime avvisaglie di repulsione.
Oggi la Cassazione chiarisce un importante aspetto: il concetto di “abuso di Autorità” deve essere inteso nel senso più ampio.
Tale espressione, che come alla violenza e alla minaccia è elemento alternativo della consumazione del reato, è fonte di un contrasto nella giurisprudenza dove taluni giudici intendono la supremazia derivante da autorità solo quella che derivi da “una posizione formale di tipo pubblicistico” e dove altri intendono la posizione “indifferentemente pubblica o privata, di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali”.
Il collegio aderisce alle pronunce, tutt’altro che isolate, che hanno il pregio di allargare il confine dell’abuso di autorità anche a soggetti che non rivestono una carica pubblica.
Chiarisce il giudice che “l’abuso di autorità vale quale mezzo di costrizione ulteriore ed alternativo rispetto alla violenza o minaccia nei riguardi di soggetto che, rispetto all’agente, si trova in una posizione di subalternità e di rispetto delle gerarchie. Il concetto di autorità riferito alla violenza sessuale non può essere inteso in senso formale di appartenenza ad un pubblico potere”.
A differenza della normativa precedente oggi non c’è più distinzione: la persona dotata di autorità è anche il privato che utilizzi la sua posizione per dominare la vittima e condizionarne il comportamento.
Gli Ermellini ricordano inoltre alcuni principi cardine del nostro sistema penale: risponde di due reati chi compie violenza sessuale con mezzi che producono lesioni personali (graffi, escoriazioni, lividi). Il codice penale, dice il giudice, distingue infatti le situazioni, considerato che la violenza sessuale è collegata a lesioni personali esteriori. I due reati in sostanza non si assorbono ma rimangono ben distinti.
Inoltre, anche se la vittima ritira la denuncia, una volta “innescata” la macchina della giustizia non si ferma. Ciò e dovuto, dice il giudice, alla “irretrattabilità della querela per i delitti a sfondo sessuale” ed anche al fatto che il reato di lesioni personali aggravato per commettere un reato – fine (la violenza sessuale) è perseguito d’ufficio.
Una sentenza importante questa, inserita nel contesto di pronunce attente alla interpretazione della normativa che possa tutelare nel migliore dei modi le povere vittime di violenza.
Un monito anche per tutte le ragazze: attenzione a chi vi offre spontaneamente del lavoro con ripetute avances, spesso è meglio rinunciare subito per evitare di rimanere segnate a vita.
Fonte: Corte di Cassazione
Luca Tosto
(7 settembre 2014)
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