giustizia amministrativa
La Polizia di Stato 'licenzia' l'Agente violento e manesco
Legittima la sanzione della destituzione per schiaffi, calci e manganellate nella cella di sicurezza. I principi della Terza Sezione del Consiglio di Stato.
Un agente della Polizia di Stato in servizio presso la Questura di Milano viene sottoposto a procedimento disciplinare per aver picchiato con “schiaffi, calci, manganellate” un cittadino peruviano, mentre costui - che era stato fermato per rissa, resistenza a pubblico ufficiale ed altro - si trovava nella camera di sicurezza della Questura.
All’aggressione aveva preso parte un altro agente, gerarchicamente subordinato al collega capo-pattuglia ed il pestaggio costituiva, in pratica, una forma di ritorsione per la condotta violenta tenuta dallo stesso straniero contro gli agenti nell’episodio che si era concluso con il suo fermo.
La scena, svoltasi nelle camere di sicurezza, era stata filmata dalle videocamere funzionanti, come di solito, in quei locali e le immagini dimostravano – oltre alla inequivocabile intenzionalità e gravità dei comportamenti dell’agente – che questo avveniva mentre lo straniero era ammanettato con le braccia dietro la schiena e manteneva un atteggiamento di totale passività. Il fatto era stato portato all’attenzione dei superiori da una segnalazione del Consolato peruviano.
Il procedimento disciplinare si concludeva con la destituzione del capo pattuglia e con una sanzione meno grave per l’altro agente. Vi è stato anche un separato procedimento penale, conclusosi con il patteggiamento di un anno e sette mesi per il primo dei due agenti e di un anno e quattro mesi per l’altro.
L’interessato ha impugnato la sanzione disciplinare al T.A.R. ma il suo ricorso è stato respinto con una motivazione nella quale sono state affrontate analiticamente tutte le censure dedotte dal ricorrente. Da qui l’appello al Consiglio di Stato.
Con sentenza n. 3313 del 3 luglio 2015 (depositata il giorno successivo alla discussione!) la Terza Sezione del Consiglio di Stato ha rigettato l’appello, condannando la parte soccombente anche al pagamento delle spese di giudizio.
Due le argomentazioni fondamentali a sostegno della decisione, di confutazione delle altrettante censure sollevate dall’agente.
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Secondo l’appellante non vi sarebbe stata ragione per irrogare nei suoi confronti una sanzione disciplinare così grave a fronte di quella subita invece dal collega; i giudici di appello hanno invece affermato che l’Autorità disciplinare ha consapevolmente differenziato le sanzioni in rapporto al diverso grado di responsabilità dei due operanti nello svolgimento dei fatti, siccome emerso nel corso del procedimento disciplinare.
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A giudizio dell’appellante gli organi disciplinari si sarebbero basati acriticamente sulla condanna pronunciata in sede penale, senza valutare autonomamente il fatto. Ha replicato il Consiglio di Stato osservando che né la relazione del funzionario istruttore, né la delibera del consiglio di disciplina, né il decreto del Capo della Polizia fanno alcun cenno al procedimento penale e tanto meno al suo esito, mentre nel ricorso di primo grado si legge che alla data del decreto di destituzione nel procedimento penale era intervenuto solo l’’avviso di “chiusura delle indagini” emesso dal Pubblico Ministero. La sentenza penale di patteggiamento dunque è intervenuta successivamente all’emanazione del procedimento disciplinare e non prima. Essa dunque non ha rilevato nel contenzioso amministrativo, se non nel senso che offre una indiretta conferma a posteriori sia della gravità degli addebiti mossi in sede disciplinare all'agente, sia dell’adeguatezza della sanzione inflittagli.
Rodolfo Murra
(5 luglio 2015)
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