Consiglio di Stato
Se la P.A. resiste in giudizio in mala fede paga le spese anche se vince
Un singolare caso di mala gestio processuale che ha fatto durare inutilmente anni un processo amministrativo.
Una società impugnava in prime cure la delibera consigliare di un Comune piemontese del 6 ottobre 2008 recante l’approvazione del Piano per gli Insediamenti Produttivi (P.I.P.). La società lamentava che nel Piano e nell’annesso piano particellare di esproprio sarebbe stato compreso anche il terreno da essa condotto in locazione finanziaria con facoltà di riscatto e destinato ad area di movimentazione carichi a servizio dell’attiguo stabilimento, insistente su fondo anch’esso condotto in locazione finanziaria ma sito nel territorio di un Comune confinante.
Il T.a.r. ha accolto il ricorso con l’onere delle spese.
Il Comune ha interposto appello, lamentando preliminarmente che il Tribunale aveva annullato il Piano in toto, anziché solo per quanto di interesse della ricorrente.
Solo nella memoria depositata in vista dell'udienza di merito il Comune ha precisato che il mappale in questione, benché ricompreso – al pari di “tutti i mappali liberi inclusi nel P.I.P.” – nel piano particellare di esproprio, non era in realtà prospetticamente assoggettato ad esproprio: nel piano particellare definitivo, infatti, le colonne relative a “superficie soggetta ad esproprio” ed a “indennità di esproprio” recherebbero, in corrispondenza della riga afferente al mappale in questione, la cifra “0”. Il Comune, a supporto delle proprie argomentazioni, ha altresì prodotto la deliberazione della Giunta ove si afferma che “l’immobile … era escluso fin dall’inizio dalla procedura espropriativa”.
La società appellata ha osservato, in memoria di replica, che se la questione fosse stata evidenziata ab initio in sede procedimentale non vi sarebbe stata alcuna iniziativa giurisdizionale.
Il Collegio di appello (IV Sezione), in riforma della sentenza impugnata, con statuizione del 9 aprile 2018, ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso di primo grado per carenza della condizione dell’azione rappresentata dall’interesse ad agire.
Tuttavia la Sezione, preso atto che, per stessa dichiarazione del Comune, il piano particellare di esproprio era stato approvato, nella versione definitiva, con la stessa delibera consiliare dell'ottobre 2008 di approvazione del P.I.P. e che tale documento aveva assunto giuridico rilievo in epoca anteriore all’instaurazione del giudizio di prime cure, e ritenuto che ciononostante, il Comune stesso, ha versato in atti detto piano nella versione definitiva solo con il ricorso introduttivo del presente giudizio di appello, ha condannato l'Ente alla refusione delle spese del doppio grado.
I giudici hanno rilevato, quindi, che il giudizio – nei fattio ggettivamente inutile - è conseguito esclusivamente alla mala gestio procedimentale e processuale da parte del Comune, che non solo ha completamente ignorato, sia nel corso del contraddittorio procedimentale con la ricorrente sia nell’ambito delle difese spese in prime cure, il piano particellare di esproprio definitivo da esso stesso approvato, ma lo ha prodotto in giudizio soltanto in grado di appello ed ha concentrato su di esso le proprie difese soltanto in sede di memorie conclusionali.
E' risultato infatti evidente che, nella specie, l’Ente locale ha violato il canone di lealtà processuale sancito dall’art. 88, comma 1, c.p.c. – sub specie di inosservanza del divieto di non ostacolare la sollecita definizione del giudizio – consentendo che la causa si dilungasse su due gradi di giudizio e per ben dieci anni. Da ciò è discesa l’applicazione della norma sancita dall’art. 92, comma 1, c.p.c., secondo cui il giudice “può indipendentemente dalla soccombenza, condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’art. 88, essa ha causato all’altra parte”.
Mattia Murra
(10 aprile 2018)
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