CORTE DI CASSAZIONE
Occupazione appropriativa ed occupazione usurpativa: una distinzione oramai superata
La Corte ha affrontato anche il tema delle possibilità legali edificatorie ai fini della determinazione del risarcimento.
La proprietaria di un fondo sito in Calabria convenne in giudizio il Comune, esponendo che il terreno di sua proprietà era stato occupato dal convenuto in via temporanea d'urgenza per la sistemazione del verde attrezzato in una zona urbana, senza che fosse emanato il decreto ablativo, chiedendone la condanna al pagamento dell'indennità di occupazione e del risarcimento del danno da occupazione illegittima.
Il Tribunale adito accolse la domanda ritenendo integrata l'occupazione appropriativa, ritenuta ipotesi d'illecito permanente, e liquidando il ristoro dovuto alla proprietaria in base al criterio del valore venale del bene, riconosciuto edificabile. Tale decisione fu in parte riformata dalla Corte d'Appello, che affermò trattarsi di danno da occupazione usurpativa, la cui domanda doveva ritenersi ammissibile, da liquidarsi in relazione alla destinazione urbanistica del fondo ed in base al criterio dell'edificabilità legale con riferimento alla data di ultimazione dei lavori e, accertato che l'immobile ricadeva, interamente, in zona destinata a verde pubblico e sport, ed in particolare a parco pubblico di quartiere, destinazione a carattere conformativo, ridusse l’importo da versarsi stabilendolo in base al valore venale agricolo (non essendo state dedotte o dimostrate possibilità di sfruttamento intermedio, stabilì l’imposto sulla scorta dei valori agricoli medi, opportunamente adeguati, data la favorevole posizione del suolo).
Per la cassazione della decisione di secondo grado, hanno proposto ricorso gli eredi dell’originaria attrice.
Col primo motivo, i ricorrenti hanno dedotto la violazione degli artt. 5 bis della L. n. 392 del 1992, 14 preleggi e 39 della L. n. 2359 del 1865, lamentando che, nel ritenere che la contestata qualità edificatoria dell'area andava desunta dalla disciplina urbanistica, la Corte di appello abbia applicato al riconosciuto caso di occupazione usurpativa i principi, eccezionali, posti in tema di espropriazione e quelli dichiarati illegittimi, con sentenza della Corte cost. n. 349 del 2007, posti in tema di occupazione acquisitiva. La valutazione del bene, secondo i ricorrenti, andava effettuata in riferimento all'art. 39 della L. n. 2359 del 1865, secondo cui il valore del bene doveva individuarsi nel giusto prezzo che avrebbe avuto in una libera contrattazione di compravendita.
Col secondo motivo, i ricorrenti hanno lamentato la violazione dell'art. 39 della L. n. 2359 del 1865, per avere la Corte territoriale valutato i terreni in termini erronei, ed escluso le possibilità di sfruttamento intermedio, addebitando loro, contrariamente al vero, di non averle dedotte e di non averle dimostrate.
La Corte, con ordinanza n. 29992 del 20 novembre 2018 ha ritenuto infondato il primo motivo, accogliendo il secondo.
I Giudici di legittimità hanno osservato che ogni distinzione tra l'occupazione acquisitiva e l'occupazione usurpativa, su cui la prima doglianza si spendeva, non ha più ragion d'essere: la sentenza n. 735 del 2015 delle SS.UU., infatti, le ha esattamente equiparate, escludendo in entrambe le ipotesi l'acquisizione autoritativa del bene alla mano pubblica, riconoscendo al proprietario la tutela reale, cautelare e risarcitoria apprestata nei confronti di qualsiasi soggetto dell'ordinamento, e specificando che si è, sempre, in presenza di un'ipotesi d'illecito permanente, che viene a cessare per effetto della restituzione, o di un accordo transattivo, o della compiuta usucapione da parte dell'occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente, caso quest'ultimo che ricorre nella specie. Se, a tale stregua, la questione dell'applicabilità di discipline differenziate per i due casi d'illecito risulta superata, l'indagine relativa al controverso carattere edificatorio dell'area restava tuttavia ugualmente determinante nel caso di specie (come documenta il divario tra la liquidazione di prime cure e di quella d'appello) ai fini della quantificazione del relativo valore venale, al quale rapportare il risarcimento dovuto ai privati per la dismessa proprietà.
La Corte ha, allora, ribadito che un'area va ritenuta edificabile solo quando la stessa risulti tale classificata dagli strumenti urbanistici, e, per converso, le possibilità legali di edificazione vanno escluse tutte le volte in cui per lo strumento urbanistico vigente all'epoca in cui deve compiersi la ricognizione legale, la zona sia stata concretamente vincolata ad un utilizzo meramente pubblicistico (verde pubblico, attrezzature pubbliche, viabilità ecc.), in quanto dette classificazioni apportano un vincolo di destinazione che preclude ai privati tutte quelle forme di trasformazione del suolo che sono riconducibili alla nozione tecnica di edificazione, da intendere come estrinsecazione dello ius aedificandi connesso al diritto di proprietà, ovvero con l'edilizia privata esprimibile dal proprietario dell'area.
Nella specie, risultando accertato che l'area era destinata a verde pubblico, e che tale destinazione costituiva un vincolo conformativo incidendo su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione della zona in cui i beni ricadono, la qualità edificatoria resta esclusa, ricadendo l'area nell'ambito di quelle che il D.M. 2 aprile 1968 (art. 2) include fra “le parti del territorio destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale”.
Il secondo motivo, invece, come anticipato, è stato accolto. Nel determinare il valore venale del fondo, e nell'escludere la possibilità di sfruttamento dell'area intermedia tra l'agricola e l'edificatoria (parcheggi, depositi, attività sportive e ricreative, chioschi per la vendita di prodotti ecc.), la Corte territoriale ha addebitato ai danneggiati il mancato assolvimento dell'onere di allegare e provare migliori destinazioni. Il che è giuridicamente erroneo: posto che il bene della vita richiesto è il risarcimento parametrato al valore di mercato del bene, non occorre, per l'effetto, alcuna ulteriore specifica allegazione, laddove nel pretendere la prova della suscettibilità del bene ad ulteriori sfruttamenti si finirebbe con l'introdurre un inammissibile fattore di correzione del criterio del valore di mercato, cui parametrare il danno con l'effetto indiretto di ripristinare l'applicazione di astratti e imprecisati valori agricoli.
La sentenza di appello è stata, in conclusione, cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio alla Corte d'Appello, in diversa composizione.
Rodolfo Murra
(27 novembre 2018)
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