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CORTE DI CASSAZIONE

Assunzione diretta in Ente pubblico su pressioni del politico: é abuso d'ufficio

I giudici di legittimità riconoscono la sussistenza del dolo intenzionale in presenza di palese violazione di legge.

Nel 2014 il Tribunale di Cremona dichiarava il Presidente di un Ente pubblico colpevole del delitto di abuso d’ufficio (di cui all'art. 323 Cod. pen.), perché, nella sua veste, con una signora sua amica aveva a stipulato (su chiamata diretta) illegittimi contratti annuali di collaboratrice, prima, e di responsabile, poi, dell'ufficio tecnico dell'ente per ben 4 anni, condannandolo, con le attenuanti generiche, alla pena di sei mesi di reclusione.

La Corte d'appello di Brescia, in parziale riforma della citata decisione, dichiarava non doversi procedere in ordine alle condotte dell’imputato fino al gennaio 2008, per essere il relativo reato estinto per prescrizione, e riduceva la pena a mesi cinque di reclusione per le condotte successive, sino al 2011, confermando nel resto l'impugnata sentenza.

La Corte di merito aveva ritenuto integrato il dolo intenzionale alla stregua dei macroscopici connotati dell'accertata violazione di legge e di regolamento - oltre che dell'art. 97, comma 3 Cost. - e della volontà, ferma e reiterata, dell’imputato di favorire l'inserimento della donna negli uffici amministrativi dell'ente a seguito delle segnalazioni e pressioni (come riferito da un teste in particolare) ricevute dal padre della stessa, Sindaco di un Comune limitrofo, consentendole così, al di fuori della realizzazione di una finalità pubblica e nell'ottica di una gestione clientelare, di conseguire un ingiusto vantaggio patrimoniale costituito dall'attribuzione della posizione impiegatizia e del relativo status economico.

Il condannato ha presentato ricorso per Cassazione, che è stato respinto con sentenza della VI Sezione del 27 maggio 2019.

Per un verso, i giudici di Piazza Cavour hanno osservato che la violazione di legge o di regolamento risultava correttamente ancorata dai magistrati di merito, con logico apparato argomentativo, alla verifica probatoria, orale e documentale, per la quale la donna era stata assunta a chiamata diretta, prima (allorché non era ancora laureata) come collaboratrice con "contratto a progetto" e poi (dopo essersi laureata) come responsabile dell'ufficio tecnico dell'Ente con contratto a tempo indeterminato di tipo “fiduciario". Ciò in contrasto con le previsioni legislative degli artt. 7, comma 6, D.L.vo n. 165 del 2001 e 110 del TUEL (D.L.vo n. 267 del 2000), oltre che di quelle regolamentari specifiche dell’Ente.

Le relative disposizioni, infatti, per un verso vietavano i contratti a progetto, consentendo solo incarichi a tempo determinato per la copertura dei posti di elevata professionalità o "di alta specializzazione", mentre, per altro verso, prescrivevano la valutazione comparativa mediante concorso, con una procedura ad evidenza pubblica selettiva del personale da assumere.

Per altro verso, in ordine alle ragioni per le quali si è affermato che nella condotta dell’imputato fosse ravvisabile il dolo intenzionale dell'abuso d'ufficio (facendo leva sul dato indiziario del carattere macroscopico della violazione di legge e di regolamento, riscontrato come detto dall'accertato intento di favorire l'inserimento della signora negli uffici dell'Ente a seguito delle segnalazioni e pressioni ricevute dal padre di costei), con ancoraggio alle informazioni probatorie conseguite per la ricostruzione della vicenda, hanno argomentato con considerazioni - per nulla "apparenti" o "apodittiche" come ha invece sostenuto il ricorrente, bensì - scevre da illogicità manifesta in fatto e corrette in diritto.

Mattia Murra

(5 giugno 2019)

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