Giustizia Amministrativa
Deportato ad Auschwitz
La pensione solo dopo morto
Ad un cittadino Italiano, superstite della deportazione in Germania, viene negato il vitalizio per non aver provato che la restrizione nel campo nazista fosse "a fini di sterminio".
Triste storia giunge all'attenzione del Consiglio di Stato.
Siamo nel 2005, il ricorrente chiedeva con un’unica istanza, in data 8/8/2005, la concessione dell’assegno vitalizio, ax art. 1 della l. 791/80, nonché la contribuzione figurativa prevista dall’art. 2 della l. 94/94, in ragione dell’avvenuta deportazione in campi nazisti di sterminio.
L’amministrazione, con provvedimento n. 60400 del 4 giugno 2009, respingeva la domanda di assegno vitalizio, ritenendo “non comprovata la restrizione a fini di sterminio” (l’interessato sarebbe cioè stato sì ristretto, ma a fini di lavoro coatto); con provvedimento n. 60401 in pari data, richiamato il provvedimento 60400, e considerata la mancata produzione di idonea documentazione sanitaria attestante la patologia riportata a causa della deportazione, respingeva anche la domanda di riconoscimento della contribuzione figurativa.
Il TAR Lazio, investito del gravame in relazione al solo provvedimento n. 60401, lo accoglieva ed annullava il diniego, sostenendo che l’amministrazione, avuto riguardo alla drammaticità dei fatti e del periodo storico, avrebbe dovuto collaborare nella ricerca della prova e non limitarsi a chiedere documentazione.
Appella ora l’amministrazione. Sostiene che il TAR abbia travisato i fatti: ciò che mancava, in realtà, era il presupposto principale, ossia l’avvenuta deportazione in campi di sterminio, essendo l’istante stato ristretto per lavori forzati (circostanza desumibile dal provv. 60400, non impugnato); la considerazione del tragico contesto evocato non giustificherebbe, del resto, il completo ribaltamento dell’onere probatorio inammissibilmente operato dal Giudice di prime cure.
Nelle more del giudizio il ricorrente è deceduto, sicché l’amministrazione ha riassunto il giudizio nel confronti dell’erede.
La causa è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 18 febbraio 2014.
L’appello non è fondato.
Si discute dell’applicazione dell’art. 2 della l. 94/94: “Ai fini del conseguimento delle prestazioni inerenti all'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti, sono considerati utili i periodi scoperti da contribuzione a partire dal primo atto subìto che portò alla privazione della libertà ed alla deportazione, nelle circostanze di cui all'articolo 1 della legge 18 novembre 1980, n. 791 (ndr deportazione nei campi di sterminio K.Z. per ragioni di razza, fede, idelologia), e fino alla data del rimpatrio, se non affetti da malattie, o fino alla data della conseguita guarigione clinica, se ammalati, dei cittadini italiani che possono far valere una posizione assicurativa nell'assicurazione predetta o periodi di lavoro assoggettabile a contribuzione dell'assicurazione stessa ai sensi delle vigenti norme di legge”.
Il Giudice di primo grado, dopo aver sottolineato la rilevanza epocale e drammatica dei fatti dai quali scaturisce la domanda, ha ritenuto che: a) il ricorrente rientri, in quanto deportato, nelle categorie indicate dalle legge quali destinatarie dei benefici; b) egli abbia prodotto le certificazioni sanitarie in suo possesso; c) l’insufficienza delle stesse avrebbe dovuto indurre l’amministrazione ad approfondire ufficiosamente l’istruttoria, anche attraverso idonei accertamenti sanitari.
L’amministrazione focalizza le proprie censure soprattutto sulla mancata considerazione dell’insussistenza del presupposto primario del beneficio: l’essere stato, l’istante, deportato in Germania per “finalità di sterminio”.
L’insussistenza di tale presupposto, evincibile per relationem dal tenore del provvedimento n. 60400, renderebbe ultroneo l’esame dell’idoneità della documentazione sanitaria sulla quale prevalentemente si incentra la motivazione del provvedimento n. 60401.
Il punto merita approfondimento. Ed occorre partire da un primo dato, di carattere formale: il provvedimento n. 60401 è tutto incentrato sull’insufficienza ed inidoneità della documentazione sanitaria, sul mancato riscontro da parte dell’istante alle pregresse richieste di documentazione sanitaria”integrativa, nonché sull’onus probandi incombente sull’istante. Non un solo cenno è fatto alla mancanza del presupposto dell’avvenuta restrizione in campi di concentramento a fini di sterminio. E’ pur vero che sono richiamati gli estremi del provvedimento n. 60400, emesso in pari data, ma senza che a questo richiamo sia attribuita alcuna specifica significatività e valenza (ed anzi, è persino menzionata erroneamente la natura concessiva di quest’ultimo, con conseguente totale imperscrutabilità del riferimento).
Ciò posto, il principio citato dall’appellante, secondo il quale, quando una motivazione ostativa sussiste, essa è di per sé sola sufficiente a sostenere il diniego, a prescindere dalla validità delle altre concorrenti motivazioni, avrebbe dovuto informare innanzitutto l’azione dell’amministrazione, inducendola – diversamente da quanto è avvenuto – a non porre l’accento su una circostanza subordinata (quella della patologia), se già quella principale difettava.
Non è pertanto frutto di un travisamento l’attenzione che il primo giudice ha posto proprio sugli aspetti sanitari.
In relazione a questi ultimi, anche a voler prescindere dalla drammaticità del contesto, emerge dagli atti che: 1) con DM del 23/9/55 (epoca più prossima ai fatti) è stata concessa al ricorrente una pensione di guerra per infermità conseguente ad “esiti di f. a f. arto superiore dx consistenti in cicatrici consolidate di cui una chirurgica per sutura del nervo ulnare con ipoeccitabilità elettrica di questo nervo e dei muscoli relativi, abolizione dei movimenti di estensione delle due ultime dita in posizione di semiflessione”; 2) dal verbale di visita medica del 1949 (dunque in epoca antecedente all’emanazione delle leggi contemplanti i benefici per cui è causa) emerge in particolare che, nel 1944, “durante la prigionia in Germania” fu ferito al braccio destro da militari tedeschi.
Trattasi di indizi sufficienti a documentare la patologia e la sua genesi (in disparte ogni considerazione in ordine alla gravità o meno della stessa), e comunque sufficienti a stimolare eventuali ed ulteriori accertamenti medici ufficiosi.
Quanto poi alla questione propedeutica della restrizione subita dal ricorrente nei campi di concentramento, dalla documentazione emerge che il nominativo del medesimo è inserito in un elenco di deportati dall’Italia redatto dal Comitato ricerche deportati (si veda relazione del Capo dell’ufficio di collegamento italiano presso l’ITS, e relativi allegati).
L’ulteriore indagine sulle effettive finalità della restrizione presso “Fossoli, Ratibor, Wiesbaden, Sargemin, Frankental e Landau” (se cioè essa era finalizzata allo sterminio, o ai lavori forzati), è invero difficile da approfondire; ed in ogni caso, anche a volerne ammettere la rilevanza, essa compete all’amministrazione e non all’istante, e deve essere rigorosa, poiché, nel dubbio, non può che ammettersi una presunzione relativa pro istante.
Il Consiglio di Stato ha quindi respinto l'appello.
Valentina Romani
(7 aprile 2014)
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