La sentenza della Cassazione n. 32791 del 27 luglio 2016 sulle problematiche derivanti dall'utilizzo dei Social e sulla dichiarazione di non doversi procedere in caso di condotta riparatoria.
Sempre più le aule giudiziarie si animano di vicende che nascono dall'utilizzo "disinvolto" dei Social network, strumenti di comunicazione che spesso degenerano in diffamazione, come nel caso giunto dinanzi alla Suprema Corte che vede una signora al banco degli imputati per aver postato sulla propria bacheca personale facebook un commento sferzante nei confronti del sindaco del suo comune tacciato di insensibilità rigardo ai problemi dell'imputata e di un'altra persona a questa legata, oltre che di scarsa umanità.
Citata in giudizio dal Pubblico Ministero davanti al Giudice di Pace per il reato di diffamazione previsto dall'art. 595 del codice penale, l'aveva scampata in corner dalla condanna in quanto, avendo offerto in udienza la somma di 800 euro a titolo riparatorio, ex art. 35 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 74, otteneva una sentenza di non doversi procedere per intervenuta condotta riparatoria.
Ma insoddisfatta ha impugnato la sentenza dinanzi la Corte di Cassazione in quanto la sentenza impugnata nulla dice in ordine alla richiesta principale di assoluzione per esercizio del diritto di critica, che - a suo giudizio - importa la nullità della sentenza per violazione di legge.
La Corte di Cassazione Penale, Sezione Quinta con sentenza n. 32791 pubblicata il 27 luglio 2016 (Presidente: Bruno Paolo Antonio - Udienza: 13.5.2016), nel rigettare il ricorso condannando la signora alle spese processuali, ha tra l'altro, evidenziato che il giudizio sferzante postato su facebook nei confronti del Sindaco era certamente idoneo a lederne la reputazione in quanto attribuiva a quest'ultimo indifferenza verso le sofferenze umane, se non vero e proprio cinismo; il che, tenuto conto del ruolo ricoperto dalla persona offesa (Sindaco) ne comportava un evidente scadimento nella considerazione generale.
Tale lesione dell'integrità morale - per la Corte - "sarebbe stata certamente irrilevante, dal punto vista penale, stante il ruolo pubblico della persona offesa, ove si fosse trattato di fatti veri, dimostrati nella loro obiettività. Nulla è dato sapere, però, circa la verità di quei fatti, nè stante la natura dell'istituto attivato dall'imputata - un accertamento era consentito al giudice, che ha dovuto necessariamente fermarsi all'esame della contestazione e alla verifica del suo inquadramento in fattispecie di reato tipizzate. Tanto ha concretamente fatto, constatando che il reato era sussistente, anche sotto il profilo della diffusività della propalazione (attraverso una bacheca facebook si ha propalazione di notizie in un ambito rilevante, a meno che non sia stato limitato l'acceso ad una sola persona: Cass., n. 24431 del 28/4/2015)".
Fermo quanto sopra - che si spera faccia riflettere sull'importanza di ponderare le espressioni che con troppa facilità e superficialità si trovano postate sui Social - la Corte ha affermato che il giudice è tenuto a pronunciare sentenza di assoluzione ai sensi dell'art. 129 del codice di procedura penale, qualora risulti "evidente" la ricorrenza di una delle condizioni che impongono il proscioglimento nel merito, ovvero che l'azione penale non poteva essere promossa o non può essere proseguita.
Tale norma - applicabile al giudizio che si svolge dinanzi al Giudice di pace - va calata nel meccanismo applicativo dell'istituto previsto dall'art. 35 del d.lgs d.lgs. 28 agosto 2000, n. 74, che consente al giudice di dichiarare estinto il reato qualora l'imputato dimostri di aver proceduto, prima dell'udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato.
Va considerato, poi, che la norma richiede, per l'applicazione dell'istituto, che il giudice "senta" le parti e, eventualmente, la persona offesa, se comparsa. Gli strumenti a disposizione del giudice - dai quali poter trarre argomenti per valutare la congruità dell'offerta, sia sotto il profilo risarcitorio che quello social-preventivo - sono quindi limitati, anche se non è escluso che il giudice, dopo aver ascoltato le parti, possa acquisire documenti idonei a valutare l'entità del danno o la gravità del reato, mentre è da escludere, invece, una attività istruttoria volta ad accertare l'esistenza (o insussistenza) del reato o la sua commissione da parte dell'imputato, ovvero l'insussistenza dell'elemento soggettivo, giacchè verrebbe frustrata, in tal modo, la funzione dell'istituto, volto sia a realizzare una forma di giustizia conciliativa, sia a deflazionare il carico giudiziario, attraverso una forma di componimento extra giudiziario, o, più strettamente, extra processum.
In ogni caso tale verifica, anche implicita, che compie il giudice può legittimare il ricorso per cassazione solo nei casi di "evidente" arbitrarietà della valutazione (quando, per esempio, venga accolta l'offerta riparatoria per un fatto certamente lecito).
Tanto premesso in via generale, la Suprema Corte ha rilevato che, nessun vizio affligge la sentenza impugnata che ha fatto corretta applicazione dei principi sopra sinteticamente riportati in quanto, nello specifico, nessuna "evidenza" era rilevabile dal giudice, quando fu dichiarato estinto il reato per congruità dell'offerta, né la ricorrente ha sollevato argomenti - rilevanti nel giudizio di cassazione - idonei a dimostrare un errore del giudice.
Verdetto finale niente assoluzione, ma non luogo a procedersi per intervenuta condotta riparatoria.