Corte di Cassazione
Responsabilità professionale medica: quanto "pesa" una concausa non umana?
Il caso di un bambino affetto da sindrome di Down reso invalido al 100% a seguito di un parto scorrettamente eseguito.
I genitori di un bambino nato con un imponente danno neurologico determinato da grave asfissia e permanente invalidità totale, cagionata dalla negligente condotta di un ginecologo nella gestione del travaglio e nel corso delle operazioni di parto, ottenevano dopo un giudizio di primo grado il giusto risarcimento del danno.
A seguito di impugnazione spiegata dalla compagnia di assicurazione del medico, la Corte d'Appello di Genova ha rideterminato in diminuzione (al 50%) la somma liquidata dal giudice di prime cure a titolo di danno patrimoniale subito dal minore. La diminuzione, in via equitativa, è stata motivata ponendo a base di calcolo il criterio del “triplo della pensione sociale” in luogo di quello del “reddito nazionale medio” preso a base di riferimento dal Tribunale, ravvisando quest'ultimo come non corretto parametro di determinazione della presumibile capacità reddituale del bambino, in quanto “cause preesistenti alla invalidità cagionata dal personale responsabile avrebbero, presumibilmente, comunque impedito il raggiungimento di un livello reddituale medio”: sicché, “stante la sua situazione di invalidità precedente la negligenza attribuita al personale medico operante avrebbe potuto attingere un reddito medio statisticamente ottenuto comparando posizioni reddituali diverse, le quali hanno però quale naturale presupposto l'assenza di invalidità, che di per se stessa comporta una capacità reddituale inferiore alla media”.
Il giudice dell'appello ha al riguardo argomentato dal rilievo che, pur essendo stata dal tribunale esclusa la responsabilità del ginecologo in relazione all'insorta sindrome di Down del quale il bambino risultò essere affetto, ciononostante “nel caso di specie il bimbo ha subito una invalidità permanente del 100% grazie al concorrere di due cause”: oltre a quella umana, consistente come detto nella “non corretta gestione del travaglio” e nella “conseguente ipossia”, quella “attribuibile solo a fattori naturali, senza il concorso della causalità umana: la sindrome di Down”, che preesisteva alla causa di origine umana.
Rilevato che la porzione di responsabilità professionale è stata determinata dalla sentenza del Tribunale nella misura percentuale del 50%, restando così imputata al personale medico operante la residua percentuale del 50%, la Corte di merito è pervenuta quindi ad affermare che “in mancanza di indicazioni specifiche che possano orientare verso il riconoscimento tranquillante di una maggiore efficacia causale dell'una sindrome (di Down) sull'altra causa di invalidità (ipossia da travaglio)” dovesse nella specie trovare applicazione il principio generale dell'eguaglianza delle concause espresso dall'art. 2055 comma 3 c.c., sottolineando che “il riconoscimento di una minore efficienza causale alla sindrome di Down dipende anche dal riconoscimento di una maggiore possibilità di integrazione, grazie anche ai progressi della medicina, alle persone affette da tale malattia, rispetto a quanto avveniva in passato e dalla maggiore longevità della quale essi possono godere in oggi, rispetto a quella tipicamente ridotta, sulla quale, in passato, potevano riporre aspettativa”.
Proposto ricorso per cassazione la III Sezione della Corte Suprema, con sentenza n. 3893 del 29 febbraio 2016, ha mostrato di non condividere gli assunti posti a base della pronuncia impugnata, cassandola con rinvio.
Qualificandola in termini di concausa, la Corte di merito non ha in particolare dato conto delle ragioni per cui, pur trattandosi di patologia solitamente idonea a determinare un'invalidità permanente del 100% (o di termini percentuali a tale soglia molto prossimi) l'ipossia cagionata dalla condotta colposa del ginecologo non sia stata nella specie considerata assurgente a causa sopravvenuta idonea a determinare in via autonoma ed esclusiva l'invalidità del minore.
Al riguardo, hanno osservato i giudici di legittimità, il nesso di causalità (il quale esprime la derivazione dell'evento dalla condotta colposa (o dolosa) va distinto dall'altro e diverso elemento costitutivo dell'inadempimento e dell'illecito civile rappresentato dalla condotta colposa (o dolosa) del debitore/danneggiante per il significato da riconoscersi alla colpa, sia in ambito contrattuale che ai fini della configurabilità della responsabilità extracontrattuale, quest'ultima invero propriamente costituendo il criterio di imputabilità della responsabilità.
La verifica sull’attitudine della causa umana a generare da sola il danno, richiesta dalla Cassazione, quindi, s'impone già sul piano logico come prioritaria, essendo idonea a definire la questione dell'accertamento del nesso di causalità, solamente al cui esito può quindi addivenirsi alla determinazione dell'ambito del danno risarcibile ed alla quantificazione dell'ammontare del risarcimento spettante al creditore/danneggiato.
Osservato che la tradizionale concezione della causalità giuridica come regolarità statistica del decorso causale ha ceduto al criterio della consequenzialità scientifica o della credibilità razionale, nell'avvertita necessità di non lasciare priva di ristoro l'ipotesi in cui l'evento lesivo sia conseguenza necessitata del fatto dannoso quand'anche statisticamente anomalo, va posto in rilievo che il criterio della prevedibilità va distinto da quello della normalità delle conseguenze.
Ove all'esito del detto accertamento dovesse emergere che la condotta colposa del medico abbia nella specie assunto rilievo di causa del danno indipendentemente dalla causa originaria, e cioè come autonoma causa efficiente eccezionale ed atipica rispetto alla prima e di per sé idonea a determinare l'invalidità permanente al 100% del minore , deve trarsene che il relativo autore è tenuto a risarcire il danno per intero.
La parola, allora, passa di nuovo ai giudici di merito.
Fonte: Corte Cassazione
Rodolfo Murra
(17 marzo 2016)
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