Reato di diffamazione
Pubblica su Facebook di essere stato "defenestrato" a causa di un "raccomandato"
Per la Suprema Corte e' reato l'insulto rivolto a persona non individuata ma individuabile.
Con sentenza del 21.2.2012 il Tribunale militare di Roma condannava un maresciallo capo della Guardia di Finanza alla pena di tre mesi di reclusione militare per il reato di diffamazione pluriaggravata perché, nella qualità di maresciallo capo, pubblicava sul social network “facebook” la frase “….attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo…ma me ne fotto..per vendetta appena ho due minuti gli trombo la moglie”, offendendo in tal modo la reputazione del suo collega, designato in sostituzione al comando della compagnia di loro appartenenza.
La Corte militare di appello in data 28.11.2012, riformando la predetta sentenza, assolveva il maresciallo per insussistenza del fatto, affermando che “ la identificazione della persona offesa risultava possibile soltanto da parte di una ristretta cerchia di soggetti , non avendo l’imputato indicato il nome del suo successore, né la funzione di comando in cui era stato sostituito, né alcun riferimento cronologico". Pertanto secondo la Corte militare di appello “manca la prova che l’imputato abbia intenzionalmente comunicato con più persone in grado di individuare in modo univoco il destinatario delle espressioni diffamatorie”.
Contro questa sentenza ha promosso ricorso in Cassazione il Procuratore generale presso la Corte militare di appello denunciando la violazione di legge ed il vizio della motivazione rilevando che “l’offesa alla reputazione rilevante ai fini della diffamazione prescinde dalle conseguenze che possono derivare o siano in concreto derivate all’interessato. Ciò che rileva, quindi, è soltanto l’uso di frasi offensive e la circostanza che, come affermato dalla giurisprudenza, la pubblicazione su internet di per sé ne abbia determinato la conoscenza da parte di più persone, a nulla rilevando se in concreto siano state lette”.
La motivazione della sentenza impugnata, per il Procuratore generale, è, pertanto, “illogica e contraddittoria rispetto a quanto affermato dalla stessa Corte di appello in ordine alla natura di mezzo di pubblicità del social network cui ha accesso con la sola registrazione una molteplicità di soggetti indeterminati e non può essere desunta la prova contraria dalle dichiarazioni dei testimoni della difesa”
Inoltre, “rilevante deve ritenersi l’avverbio usato, che indiscutibilmente si riferisce al presente e che, quindi, contraddice quanto affermato dalla Corte di appello in ordine alla mancanza di indicazioni cronologiche. Ulteriore elemento di identificazione è la qualificazione di evidentemente di pari grado, stante l’avvenuta per sua causa, ed ”.
“Evidenzia, quindi, il ricorrente che l’affermazione che la identificazione certa dell’offeso fosse limitata ad un gruppo ristretto di persone costituito da quello in possesso di notizie ulteriori, è irrilevante e superflua”.
La Corte di Cassazione con la sentenza numero 22 del 16 aprile 2014 ha affermato che “il ricorso del Procuratore generale è fondato” poiché “il discorso giustificativo con il quale la Corte di appello ha sostenuto che la individuazione univoca del militare tacciato di essere fosse possibile soltanto da parte di una ristretta cerchia di soggetti rispetto alla generalità degli utenti del social network, ed, in particolare, soltanto dei militari appartenenti alla compagnia della Guardia di finanza in questione, appare contraddittorio” in quanto gli stessi giudici di secondo grado hanno affermato la sussistenza dell’aggravante dell’utilizzo del mezzo di pubblicità, tenendo conto che la pubblicazione della frase sul profilo del social network rende la stessa accessibile ad una moltitudine indeterminata di soggetti.
Inoltre, “affermare che l’imputato non ha indicato il nome del suo successore, né la funzione di comando in cui era stato sostituito, né alcun riferimento cronologico non sembra tenere conto adeguatamente dell’avverbio , che all’evidenza si riferisce al presente, né della qualificazione di collegata al termine ”.
La Corte di Cassazione ricorda poi, che, ai fini della integrazione del reato di diffamazione, è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa. Inoltre, “il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due. Ed ai fini di detta valutazione non può non tenersi conto dell’utilizzazione del social network -come la stessa Corte di appello ha evidenziato- a nulla rilevando che non si tratti di strumento finalizzato a contatti istituzionali tra appartenenti alla Guardia di finanza, né la circostanza che in concreto la frase sia stata letta soltanto da una persona”.
La Corte di Cassazione ha, pertanto, annullato la sentenza con rinvio ad un’altra sezione della Corte militare di Appello che dovrà rivalutare la sussistenza dell'elemento soggettivo e oggettivo del reato sulla base dei criteri sopra evidenziati.
Claudia De Vincenzi
(23 aprile 2014)
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