CONSIGLIO DI STATO
E' legittima la soppressione di una Avvocatura comunale?
I giudici di Palazzo Spada alle prese con una questione giuridica delicata.
Il TAR per la Calabria (Sezione di Catanzaro) nel 2017 aveva accolto il ricorso proposto da un avvocato di un Comune avverso la deliberazione di Giunta comunale con la quale, nel quadro di una complessiva riorganizzazione degli uffici comunali, era stata disposta la soppressione del Servizio Avvocatura Civica (dove egli prestava servizio da molti anni).
Il Comune soccombente proponeva appello, sostenendo l’erroneità della sentenza in quanto nel corso dell’anno 2015 l’Amministrazione comunale si era trovata costretta a fronteggiare una difficile situazione finanziaria, che aveva dato luogo all’approvazione di un Piano di Riequilibrio Finanziario Pluriennale il quale aveva imposto la riduzione delle spese di personale, attraverso la razionalizzazione delle strutture burocratiche/amministrative e, quindi, la decisione di rivisitare l’intera macrostruttura dell’Ente, non più confacente alle reali esigenze ed agli obiettivi di mandato (soprattutto di risanamento economico-finanziario) da perseguire. Perciò con successiva deliberazione di Giunta Comunale del febbraio 2017, l’Ente aveva individuato, tra le varie misure organizzative, la soppressione del Servizio Avvocatura Civica.
In sostanza l’appellante lamentava che la sentenza impugnata abbia giustificato la decisione assunta sul non corretto presupposto che le scelte organizzative dell’Ente, con le quali si era decisa la riorganizzazione degli uffici e dei servizi e la soppressione dell’Avvocatura civica, non fossero state idoneamente motivate (sotto il duplice e concorrente profilo della preventiva valutazione dell’impatto economico rinveniente dalla necessità di affidare il contenzioso a legali esterni e della possibilità di non escludere “completamente” una difesa interna dell’Ente).
Il Consiglio di Stato, V Sezione, con sentenza n. 5143 del 3 settembre 2018, ha ritenuto l’appello fondato e meritevole di essere accolto.
Il Collegio ha premesso che la determinazione delle linee fondamentali di organizzazione degli uffici pubblici (con l’individuazione di quelli di maggiore rilevanza, dei modi di conferimento della relativa titolarità e di determinazione delle dotazioni organiche complessive) è rimessa – sulla base di “principi generali” fissati dalla legge – a ciascuna Amministrazione pubblica, che vi provvede mediante “atti organizzativi” (cfr. artt. 2 e 5 D.L.vo n. 165 del 2001), complessivamente ispirati a criteri di funzionalità, flessibilità, trasparenza ed imparzialità, idonei a tradurre e compendiare, in prospettiva programmatica, i principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità (art. 97 Cost.) e a perseguire la complessiva efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa (art. 1 L. n. 241 del 1990).
Sebbene non sia revocabile in dubbio, ha proseguito la decisione di secondo grado, che siffatti atti organizzativi rientrino pienamente nel novero dei provvedimenti amministrativi e siano, in quanto tali, soggetti al relativo statuto (che ne impone la complessiva verifica di legittimità, la soggezione alle norme sulla competenza, il rispetto dei canoni di ragionevolezza, la garanzia di imparzialità e ne legittima il corrispondente sindacato giurisdizionale da parte del giudice amministrativo, anche in punto di adeguatezza delle premesse istruttorie e di idoneità giustificativa sul piano motivazionale), è vero, tuttavia, che gli ampi margini della scolpita logica di auto-organizzazione postulano ed impongono, per tradizionale e consolidato intendimento, il riconoscimento di una lata discrezionalità programmatica.
Il Collegio ha osservato che sussiste, nella adozione dei provvedimenti in questione, una discrezionalità che, per un verso – non strutturandosi in termini di confronto comparativo di posizioni e di interessi pubblici e privati, nella logica della determinazione conclusiva dei procedimenti ad efficacia esterna – ridimensiona, pur senza elidere, l’intensità dell’onere motivazionale e, per altro e consequenziale verso, limita il sindacato giudiziale alle ipotesi di conclamata ed evidente abnormità.
A livello di Enti locali, i ricordati principi hanno trovato conferma positiva a partire dalla L. n. 127 del 1997 che, nel modificare l’art. 51 della L. n. 142 del 1990, ha cambiato la competenza ad adottare il regolamento degli uffici e dei servizi, attribuendolo (unico, non a caso, fra tutti i regolamenti) alla Giunta, proprio per porre in evidenza che la organizzazione degli uffici degli enti locali è vicenda intrinsecamente collegata con il potere operativo.
In siffatto contesto, anche l'Avvocatura Comunale, secondo il Supremo Consesso – conscio comunque delle consistenti guarentigie rivenienti dalla legge professionale in relazione alla qualificata attività dispiegata – rappresenta a tutti gli effetti un ufficio comunale e, come tale, è soggetto al generale potere di auto-regolamentazione dell’Ente.
Ciò posto, i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che la sentenza impugnata – nella parte in cui ha imputato alle contestate scelte organizzative di non aver idoneamente vagliato la possibilità di non rinunciare “completamente” alla difesa interna dell’Ente – ha obiettivamente travalicato i limiti di un sindacato estrinseco di legalità, di fatto sovrapponendosi ad un’opzione organizzativa di per sé né arbitraria, né irragionevole, né sproporzionata, ove confrontata con i canoni di funzionalità e flessibilità.
Del resto, la scansione cronologica degli atti, così come ricostruita in giudizio, dimostrerebbe che, nel caso di specie, la decisione di sopprimere l’ufficio legale – lungi dal rappresentare il frutto di una decisione improvvisata, poco meditata o superficiale – ha costituito l’esito della progressiva maturazione, elaborata attraverso un complesso iter istruttorio, di riorganizzare e rivisitare, per esigenze finanziarie e di “semplificazione” organizzativa, la macro-struttura dell’ente.
Infine, contrariamente all’assunto del primo giudice, secondo il Supremo Consesso nella specie non risulta pretermessa la stima dei prevedibili impatti economici rinvenienti dalla necessità di affidare all’esterno gli incarichi legali: stima operata nel quadro di un complessivo bilanciamento di costi e benefici, che di per sé – in difetto di emergenti incongruenze o contraddizioni – non può essere doppiato e superato da un difforme apprezzamento giudiziale.
Mattia Murra
(2 ottobre 2018)
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