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Difesa nazionale

Diniego di cittadinanza per contiguità con organizzazioni pericolose

Il TAR fa leva sull'amplissima discrezionalità dell'Amministrazione.

Uno straniero sprovvisto di cittadinanza italiana ricorreva, innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, evocando il Ministero dell’Interno per l’annullamento del provvedimento di rigetto della richiesta di concessione della cittadinanza stessa, ai sensi dell’art. 9 co. 1 lett. f) L. n. 91 del 1992. Il ricorrente nel ricorso contestava l’assenza di motivazione e di istruttoria sottese al provvedimento impugnato, entrambe, secondo quanto da egli asserito, vizi imprescindibili in considerazione della delicata materia portata all’attenzione dell’Organo Giudicante.

Prima di analizzare la decisione concretamente assunta dal T.A.R. sul contenzioso oggetto del presente commento, appare utile chiarire quanto stabilito dalla normativa sopra menzionata.

La legge n. 91 del 1992, rubricata “Nuove norme sulla sicurezza” all’art. 9 co. 1 lett. f) testualmente stabilisce che: “La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno:

a) allo straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni, comunque fatto salvo quanto previsto dall'articolo 4, comma 1, lettera c);

b) allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione;

c) allo straniero che ha prestato servizio, anche all'estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato;

d) al cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica;

e) all'apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica;

f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica”.

Orbene il ricorrente, a seguito della presentazione della propria richiesta di concessione della cittadinanza italiana, si vedeva negata tale rivendicazione in quanto, dall’attività informativa esperita a carico dell’interessato, emergeva la contiguità del ricorrente a movimenti aventi scopi non compatibili con la sicurezza della Repubblica.

La Sezione I Ter del T.A.R. Lazio, con la sentenza n. 2356/2019 pubblicata in data 21 febbraio 2019 ha respinto il ricorso e, contestualmente, condannato il ricorrente al pagamento delle spese di lite.

In primo luogo, il T.A.R. Lazio, partendo da un’analisi inizialmente generale della materia oggetto del contendere, ha rilevato che “…l’amplissima discrezionalità…” dell’Amministrazione nel procedimento de quo “…si esplica in un potere valutativo che si traduce in un apprezzamento di opportunità circa lo stabile inserimento dello straniero nella comunità nazionale, sulla base di un complesso di circostanza, atte a dimostrare l’integrazione del soggetto interessato nel tessuto sociale, sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta”.

L’interesse pubblico sotteso al provvedimento di concessione della particolare capacità giuridica, connessa allo status di cittadino, imporrebbe, a valle di quanto statuito dal T.A.R. Lazio, che vengano valutati, anche sotto il profilo indiziario, le prospettive di un ottimale inserimento del soggetto interessato nel contesto sociale del Paese ospitante.

Nel merito, e con esplicito riferimento al diniego di concessione della cittadinanza per motivi di sicurezza, i Consiglieri di Via Flaminia hanno invero adeguato il loro apprezzamento a molteplici pronunzie giurisprudenziali già adottate in precedenza. Anzitutto, è stato stabilito che il provvedimento di diniego della richiesta della cittadinanza italiana “…non deve necessariamente riportare analiticamente le notizie sulla base delle quali si è addivenuti al giudizio di sintesi finale, essendo sufficiente quest’ultimo, in quanto ciò potrebbe in qualche modo compromettere l’attività preventiva o di controllo da parte degli organi a ciò preposti ed anche le connesse esigenze di salvaguardia della incolumità di coloro che hanno effettuato le indagini”.

Seguendo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, dunque, considerare “insufficiente” l’istruttoria benché espressamente menzionata, e contestualmente inadeguato il richiamo scaturito dalla stessa ad una sospetta contiguità con associazioni, per così dire, “sospette”, oltre a comportare un’indebita invasione nell’ambito della discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, finirebbe col mettere a rischio le complessive e difficili finalità di salvaguardia generale sottese alla diagnosi di pericolosità sociale effettuata.

“La particolarità delle esigenze di tutela della sicurezza della Repubblica” - hanno continuato i Giudici amministrativi – “giustifica infatti una assertività di valutazione che però è solo apparente, essendo essa in realtà espressamente e concretamente ancorata agli esiti delle investigazioni effettuate dagli organismi competenti. In tale contesto, il richiamo ai motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica […] non costituisce dunque una mera clausola di stile, ma tiene conto degli elementi oggettivi e sostanziali acquisiti mediante l’attività informativa esperita, ancorché di essa non vi sia stata la riproduzione per esteso, secondo la modalità tipica della motivazione per relationem”.

La valutazione del Dipartimento della Pubblica Sicurezza avveniva, dunque, sulla base di un accertamento effettuato in modo rituale, il cui esito in termini di prognosi di pericolosità sociale rientrava negli apprezzamenti di merito non sindacabili innanzi al Giudice amministrativo.

Per concludere, nel caso di specie la contiguità a movimenti che mettono in pericolo la sicurezza nazionale emersa dall’attività informativa indicavano in primo luogo l’inaffidabilità dell’istante e, inoltre, integravano un autonomo motivo ostativo al rilascio della cittadinanza italiana, nessun rilievo potendo assumere, in contrario, l’assenza di procedimenti penali a carico del ricorrente, in quanto la verifica dei motivi ostativi alla sicurezza della Repubblica Italiana non si riduce, esclusivamente, al mero accertamento dei fatti penalmente rilevanti, bensì attiene alla prevenzione di eventuali rischi per la sicurezza pubblica.

 

 

Mattia Murra

(26 febbraio 2019)

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