Regione Veneto
La legge sulla ricostituzione di Comuni soppressi in regime fascista è abrogata
I giudici del Supremo Consenso Amministrativo chiariscono definitivamente una vicenda giudiziaria durata trent'anni.
Dalle ceneri del regime fascista, il legislatore del secondo dopoguerra tentò di sopperire allo stato di malcontento e pregiudizio degli abitanti dei Comuni soppressi e riqualificati in Frazioni. L’intento era quello di soddisfare – con la Legge 15 febbraio 1953, n.71 - “un’aspirazione allora presente, quando era ancora vivida la memoria delle preesistenti autonomie e della loro autoritaria soppressione”. La disposizione, consentiva, infatti, la ricostituzione dei Comuni soppressi dopo il 28 ottobre 1922, in deroga alla disciplina generale vigente in materia di istituzione di nuovi Comuni, anche ove la loro popolazione fosse stata inferiore al limite minimo di 3.000 abitanti.
L’applicazione di tale norma procurò non poche controversie. Una tra queste è quella definita dal Consiglio di Stato con sentenza n. 3823/2014.
I residenti della Frazione di Bottrighe, unitamente ad altri 1561 elettori residenti, proponevano nei primi anni ’80 un’istanza alla Regione Veneto (ai sensi dell'articolo unico della legge 15 febbraio 1953, n. 71, nonché della legge regionale 16 luglio 1973, n. 17) per la ricostituzione in Comune autonomo della loro Frazione, aggregata al Comune di Adria (Rovigo) durante il periodo fascista. Tale istanza respinta, fu il “prologo” di un contenzioso durato quasi trent’anni. Infatti, secondo la normativa regionale, per la creazione del nuovo Comune sarebbe stato ineludibile il requisito della popolazione minima di 5.000 abitanti stabilito dalla L. R. n. 17 del 1973.
I giudici della quinta sezione di Palazzo Spada hanno ridimensionato il principio di specialità – lex posterior generalis non derogat priori speciali - in quanto non applicabile al caso in questione. Non potrà quindi darsi preferenza della norma speciale (Legge n. 71 del 1953) sulla norma generale regionale. Sul punto, si è espressa anche la Corte Costituzionale (con sentenza n. 1 del 1993). Essa, in un caso analogo, ha ritenuto abrogata la normativa post-regime e restrittive le disposizioni generali in materia che hanno regolato la disciplina delle istituzioni di nuovi Comuni; ciò per un’esigenza strutturale: evitare la dispersione di risorse per l’ eccessiva “polverizzazione” delle circoscrizioni comunali e delle relative rappresentanze.
In particolare, tali autorevoli argomentazioni – afferma il Consiglio di Stato – “possono ben essere spese per la nuova disciplina della materia" che in Veneto si era verificata sin dalla L.R. n. 17 del 1973. Questa aveva profondamente innovato il procedimento diretto alla costituzione di Comuni, di Frazioni o altri nuclei autonomi e in particolare aveva modificato anche le condizioni sostanziali occorrenti per l’erezione in Comuni di Frazioni (elevazione da 3.000 a 5.000 della soglia minima degli abitanti interessati).
Si era pervenuti, così, ad un fenomeno abrogativo, seppur limitato in ambito regionale, coerente all’art. 15 disp. prel. Cod. Civ. Infatti, l’entrata in vigore della legge regionale – secondo i giudici d’appello – ha “determinato l’abrogazione implicita di tutte le norme anteriori incompatibiliincluse nella stessa materia, ivi comprese quelle enunciate in leggi di carattere speciale non espressamente preservate dalla nuova normativa. Conseguenza, questa, che può essere desunta sia dall'art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile, con riferimento al fatto che la nuova legge ha disciplinato l'intera materia nel cui ambito si veniva a collocare anche la legge n. 71 …”.
In questo senso, la Frazione interessata non soddisfaceva il requisito di popolazione minima stabilito, ai fini della creazione di un nuovo Comune, dalla normativa da considerare vigente. Pertanto, l’appello è respinto in quanto infondato.
Gianmarco Sadutto
(18 luglio 2014)
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