CONSIGLIO DI STATO
Divieto di detenzione di armi dopo una minaccia rivolta ad un familiare
La riqualificazione del fatto in sede penale non influisce sul provvedimento amministrativo.
Il Prefetto di Caserta nel novembre 2010 vietava ad un cittadino la detenzione armi, munizioni e materiale esplodenti in applicazione dell’art. 39 del T.U.L.P.S., motivando il provvedimento in ragione della denuncia-querela per il reato di minaccia, di cui all’art. 612 c.p. (primo e terzo comma), presentata nei suoi confronti da un congiunto.
Il TAR Campania, adito dall’interessato, ha accolto il ricorso volto all’annullamento del provvedimento.
Secondo il TAR, gli elementi fattuali non sarebbero stati idonei a giustificare il giudizio di inaffidabilità nell’uso delle armi, in quanto la denuncia non si era (ancora) tradotta in un giudicato in grado di fare stato in relazione alla sussistenza storica dei fatti denunciati e, per contro, dalla sentenza successivamente pronunciata dal Tribunale penale era emersa la falsità dei fatti (inizialmente) denunciati, quanto meno sotto il profilo dall’aggravante contestata, tanto è vero che la fattispecie, a seguito dell’escussione della stessa persona offesa è stata dapprima riqualificata come minaccia semplice e successivamente, stante la perseguibilità a querela della medesima e la rimessione della querela, il reato è stato dichiarato estinto.
Il Ministero dell’interno ha interposto appello, lamentando che i presupposti del divieto invece vi fossero, alla luce della natura discrezionale e della finalità di prevenzione del potere esercitato, nonché dei connotati della vicenda, per come allora rappresentati alla Prefettura.
Il Consiglio di Stato, Sez. III, con sentenza del 18 marzo 2019, ha accolto il gravame.
Il Collegio, ha osservato che, ai sensi dell'art. 39 del T.U. n. 773/1931, è ragionevole, e comunque insindacabile in sede di giurisdizione di legittimità, la scelta dell'Amministrazione di prevenire che determinate situazioni possano degenerare, vietando la detenzione di armi e munizioni a chi ha formulato minacce nel corso di litigi, anche se in assenza di un contestuale uso di armi, ed anche se ciò è avvenuto fra congiunti; in altri termini, in relazione ad una situazione familiare caratterizzata da tensioni e litigi, è legittima - e comunque insindacabile nella sede della giurisdizione di legittimità - la scelta dell'Amministrazione di prevenire che la situazione possa degenerare, vietando la detenzione di armi e munizioni nei confronti di chi risultava comunque coinvolto in tali tensioni familiari, a maggior ragione perché vi era stata una attendibile dichiarazione a pubblici ufficiali, sulla formulazione di minacce di morte da parte del titolare della licenza di porto d'armi.
Per il giudice di appello, se è vero che il TAR ha correttamente individuato i principi della materia, non ne ha poi fatto corretta applicazione, posto che, nel caso in esame, le minacce di morte dell’appellato al familiare (che fossero state profferite con uso delle armi, e quindi riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 212, secondo comma, c.p., come risultava dalle originarie dichiarazioni del soggetto offeso, oppure si trattasse di minacce semplici, di cui all’art. 212, primo comma, c.p., come sarebbe successivamente emerso nel giudizio penale, così da consentire l’estinzione del giudizio, dopo che il denunciante, su richiesta del giudice, aveva dichiarato di voler rimettere la querela), costituiscono un fatto non smentito, tale, comunque, da giustificare il divieto, indipendentemente dalla riqualificazione del fatto storico avvenuta in sede penale dopo molto tempo.
Rodolfo Murra
(18 marzo 2019)
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