Corte dei Conti
La maternità vince sull'utilità: condannato un funzionario che aveva fatto risparmiare soldi al Comune
E' stato ritenuto discriminatorio non assumere una donna incinta che di li a qualche giorno sarebbe andata in congedo per astensione obbligatoria e, quindi, necessariamente sostituita, nonostante si trattasse di un contratto di tre mesi finalizzato all'espletamento delle procedure elettorali, che la stessa non avrebbe potuto chiaramente svolgere.
Prima il Giudice del lavoro del Tribunale di Prato, poi la Corte di Appello di Firenze avevano chiarito la vicenda processuale: il Comune di Carmignano necessitava di un collaboratore amministrativo. Un’assunzione di una unità a tempo determinato per tre mesi in occasione delle elezioni europee ed amministrative del 6 e 7 giugno 2009, attingendo dalla graduatoria di un precedente concorso pubblico. Nel corso del primo colloquio, una candidata aveva fatto presente al responsabile dei servizi finanziari di essere al sesto mese di gravidanza e ciò ne aveva determinato la mancata assunzione.
In seguito la futura mamma veniva assunta dal Comune di Poggibonsi il 14 aprile 2009 e - confermando le previsioni del Comune di Carmignano - a far data dal data 20 aprile 2009 fruiva del congedo per astensione obbligatoria.
Per i giudici si tratterebbe di una palese discriminazione basata sul sesso, contro i principi costituzionali, in particolare in violazione dell’art. 37 secondo il quale “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare ed assicurare alla madre ed al bambino una speciale adeguata protezione”.
E' stato, peraltro, inutile per il Responsabile del Servizio Finanziario eccepire la mancanza di danno e di nesso causale, atteso che il Comune dal comportamento, pur illegittimo, aveva risparmiato € 5.551,62, visto l’importo che avrebbe dovuto corrispondere alla futura mamma, anche per il post–partum e per la persona sostituita.
Il principio di tutela delle donne in stato oggettivo di gravidanza è, infatti, stato ribadito sia in sede giurisprudenziale (cfr., tra le molteplici sentenze, Cass. 16189/2002 e Tribunale Milano 15 aprile 2000), sia che in sede legislativa (cfr. art. 55, comma 4, D. Lgs. 26 marzo 2001 n. 151).
Addirittura per il Tribunale di Prato, Sezione Lavoro con sentenza n. 223/2010 del 10 settembre 2010 in un passaggio della sentenza condivisa pienamente dalla Corte dei Conti sostiene che “è del tutto ragionevole presumere che la perdita di una occasione lavorativa, di per se stessa frustrante, abbia cagionato particolare tensione e sofferenza in una persona che, come la Fondelli, si trovava nella delicata situazione della gravidanza. A ciò deve aggiungersi la grave umiliazione derivante dal vedersi negare il diritto al lavoro con motivazioni, reiteratamente espresse prima a voce e poi per iscritto, che costituiscono manifesta violazione di principi fondamentali dell’ordinamento comunitario e costituzionale”.
Per la Corte dei Conti, infatti, i menzionati principi, sono applicabili al caso di specie, ma ancor più fortemente sono codificati da normative internazionali e comunitarie, ad iniziare dalla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro la donna – Convention on the eliminations of all forms of Discrimination Against Women – adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1979, entrata in vigore nel 1981, ratificata dall’Italia nel 1985 con azionabilità diretta presso il nostro giudice nazionale (cfr. art. 117 Cost. e sentenze della Corte Costituzionale 24 ottobre 2007 nn. 348 e 349.
Precisa la Corte dei Conti che anche il diritto comunitario ha codificato il principio di non discriminazione (art. 6 del Trattato di Lisbona) e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 21 (principio di non discriminazione) e 23 (parità di trattamento).
Ed ancora occorre citare l’art. 157 del Trattato di Lisbona e la direttiva 2006/54/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio che ha come oggetto l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego.
In particolare si legge nella motivazione della sentenza “non vi è alcuna norma che imponga alla lavoratrice gestante di far conoscere al datore di lavoro il proprio stato di gravidanza prima dell’assunzione, né un siffatto obbligo può ricavarsi quando la lavoratrice viene assunta con contratto a tempo determinato, dai canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. o da altro generale principio del nostro ordinamento, mentre l’accoglimento di una diversa opinione condurrebbe a ravvisare nello stato di gravidanza e puerperio di cui all’art. 4 l. n. 1204/1971 un ostacolo all’assunzione al lavoro della donna e finirebbe così per legittimare opzioni ermeneutiche destinate a minare in modo rilevante la tutela apprestata dalla legge a favore delle lavoratrici madri”.
Sulla base di quanto chiarito dal giudice ordinario, la Procura erariale per la Regione Toscana ha attivato una nuova controversia dai profili prettamente contabili nella quale contestava, al responsabile dei servizi finanziari, il danno erariale indiretto derivante dalle somme che il Comune di Carmignano era stato condanno a versare: in primo luogo, la somma da corrispondere alla candidata discriminata, a titolo di risarcimento pari a € 9.475,09, in esecuzione della sentenza del giudice del lavoro (primo e secondo grado); e poi, le spese sostenute dall’ente locale per difendersi, infruttuosamente, dalle eccezioni mosse dalla vincitrice di concorso non assunta (€ 9.134,63).
La Corte dei conti, sez. giurisd. per la Regione Toscana, con la sentenza n. 149/2014, ha ritenuto gravemente colposo il comportamento del responsabile dei servizi finanziari. Quest’ultimo aveva deciso di resistere in giudizio davanti al giudice del lavoro di Prato, aveva affidato l’incarico di consulenza legale ed inoltre espresso i pareri di regolarità tecnica e contabile per finanziare le spese legali da sostenere.
I giudici contabili hanno poi affermato che “non appare, di converso, imputabile all’odierno convenuto il danno erariale contestato per il secondo grado di giudizio per assenza del nesso di causalità, atteso che la determinazione di proseguire la tutela giudiziaria del Comune appare condotta ascrivibile ad altri soggetti (segretario comunale e legale difensore) con interruzione del nesso causale a carico del responsabile dei servizi finanziari. La impugnazione (o mancata impugnazione) della parte pubblica costituisce scelta discrezionale e, nella specie, si ritiene abbia configurato una autonoma serie causale idonea a “spezzare” il nesso causale tra il comportamento e l’esborso di denaro pubblico per il giudizio di appello”.
Conclude, pertanto, la Corte che il danno nella misura del 30% per il giudizio di primo grado dovrà essere risarcito dal dipendente comunale per un importo pari ad € 1.170,00.
Gianmarco Sadutto
(25 agosto 2014)
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