Consiglio di Stato
Rapporti tra giustizia sportiva e giudice amministrativo
La storia di un calciatore prima condannato e poi assolto dalla giustizia sportiva: gli spetta il risarcimento del danno?
Un’ex calciatore professionista che, con il ruolo di portiere, militava nella squadra di una città di provincia, nel 2012 veniva deferito dalla Procura federale, in data 8 maggio 2012, per l’asserita violazione dell’art. 7, commi 1, 2, 3, 5 e 6, del Codice di giustizia sportiva, in relazione ad un incontro valido per la Coppa Italia. In sostanza il portiere era stato accusato di aver partecipato ad una “combine”, e all’esito del procedimento disciplinare di prime cure, veniva ritenuto responsabile dell’addebito ascrittogli e sanzionato dalla Commissione disciplinare nazionale con la squalifica per anni 3 e mesi 6. La sanzione veniva confermata dalle Sezioni unite della Corte di giustizia federale, adita dall’interessato.
A questo punto il calciatore si rivolgeva al Tribunale nazionale di arbitrato per lo sport (Tnas, all’epoca organo di ultima istanza del sistema giustiziale sportivo), il quale – con lodo del 19 dicembre 2012 – accoglieva il suo gravame, disponendo l’annullamento della sanzione.
Nelle more del giudizio arbitrale il calciatore aveva sottoscritto con la società di calcio presso la quale era tesserato un accordo di risoluzione consensuale del contratto allora in essere, che sarebbe naturalmente venuto a scadenza dopo tre anni.
Successivamente alla pubblicazione del lodo a lui favorevole, il giocatore proponeva ricorso al TAR del Lazio, al fine di ottenere dalla Figc il risarcimento per equivalente monetario dei danni ingiustamente patiti in conseguenza della descritta vicenda, sia sotto il profilo patrimoniale che sotto quello non patrimoniale.
Sottolineava, in particolare, il comportamento colposo a suo dire tenuto dalla Federazione, così come desumibile dalla motivazione del lodo Tnas, secondo cui la sanzione sarebbe stata inflitta in assenza di obiettive prove a carico del calciatore.
Con sentenza dell’1 agosto 2017, il Tribunale amministrativo accoglieva parzialmente il ricorso, condannando la Fgci al risarcimento del danno patrimoniale derivante dalla perdita degli emolumenti conseguente all’anticipata risoluzione del contratto, nonché del danno non patrimoniale conseguente al discredito derivatogli dall’irrogazione della sanzione nell’ambiente calcistico e nei rapporti sociali, avendo cancellato la sua immagine di “calciatore pulito” e di “persona pulita”.
Avverso tale decisione interponeva appello la Fgci.
Il Consiglio di Stato, Quinta Sezione, con sentenza n. 5020 del 22 agosto 2018, accoglieva solo parzialmente l’appello (riducendo, seppur di poco, l’ammontare del risarcimento del danno), effettuando una disamina complessa delle direttrici lungo le quali si svolge il sindacato del giudice amministrativo in materia di risarcimento danni (per equivalente monetario) conseguenti all’irrogazione di sanzioni disciplinari sportive poi rivelatesi illegittime.
Per tali controversie risarcitorie opera la c.d. pregiudiziale sportiva: perciò possono essere avviate solo dopo che risultano «esauriti i gradi della giustizia sportiva», come prevede l’art. 3 del Codice.
In questo schema, ciò che qui rileva è secondo il Consiglio di Stato che, anche se la tutela finisce per essere solo per equivalente monetario, il rapporto tra giustizia sportiva e giurisdizione amministrativa resta riconducibile a un modello progressivo a giurisdizione condizionata, dove coesistono successivi livelli giustiziali, susseguentisi in ragione di oggetto e natura, più o meno specialistica, delle competenze dell’organo giudicante.
Come è in genere per siffatti sistemi di tutela, la razionalità dell’assetto in progressione comporta che le successive domande di tutela, che hanno per presupposto l’espletamento delle prime, siano informate al principio di sussidiarietà e di economia dei mezzi e siano tra loro coerenti per oggetto, in primis dal punto di vista funzionale: vale a dire per fondamenti della causa petendi. La ragione del domandare giustizia, cioè la prospettazione della lesione di cui si chiede la riparazione o il ristoro, non può che avere la medesima latitudine: pur se, in rapporto al tipo di giudicante e ai suoi poteri, può mutare il formale petitum, cioè la “modalità di tutela giurisdizionale”. Non si può chiedere al livello successivo giustizia per una causa e per un bene della vita diversi da quelli invocati al livello necessariamente presupposto.
Il sistema delle norme sulla giurisdizione dell’art. 3 d.-l. n. 220 del 2003, che prevede la c.d. “pregiudiziale sportiva”, cioè che si può adire il giudice statale solo dopo «esauriti i gradi della giustizia sportiva» (i c.d. rimedi interni), sarebbe privo di coerenza e di dubbia costituzionalità se vi fosse una preclusione di legge ad adire immediatamente il giudice dello Stato per ragioni nuove o diverse da quelle sollevabili nell’obbligatoria sede pregiudiziale.
Dette caratteristiche generali si riflettono sul perimetro della tutela risarcitoria, che rileva solo come tutela dell’eventuale lesione interna ad un ordinario e corretto sviluppo dell’attività sportiva.
Diversamente, arrivando a voler includere nell’oggetto di questa tutela per equivalente monetario voci per loro natura diverse da quelle proprie di quell’àmbito ed estranee alle dette finalità eminentemente pubblicistiche dell’ordinamento sportivo, si finirebbe per contraddire il rammentato vincolo di strumentalità funzionale che è proprio della giurisdizione condizionata nonché quello di stretta proporzionalità degli strumenti integrati di tutela. E si finirebbe per trasformare l’espressione dello sport in un’ordinaria fenomenologia individuale di mercato dove il sostegno pubblico perderebbe ragione o diverrebbe locupletativo.
Si esulerebbe dalle ragioni di una particolare tutela giurisdizionale pubblica che ha per base espressa quelle dell’organizzazione pubblicistica dell’attività sportiva e la garanzia del suo legittimo funzionamento: il che è quanto giustifica la condizionata giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ex art. 133, comma 1, lett. z) Cod. proc. amm., che concerne atti – come quelli oggetto del giudizio in parola – originati nell’esercizio di attività a valenza pubblicistica. Perciò la particolare giustizia statuale approntata dalla legge corrisponde all’oggetto sostanziale della “giustizia sportiva”: diversamente, non ci sarebbero ragioni per differenziarla da quella, di diritto comune, inerente un qualsivoglia fenomeno lucrativo privato, basato sull’utilizzo di risorse anche materiali private.
A seguito di una siffatta disamina concettuale, i giudici di appello sono pervenuti al convincimento che il principale motivo di appello prospettato dalla Fgci fosse infondato. Con tale censura, infatti, l’appellante eccepiva che l’inflizione di una sanzione disciplinare, costituendo misura afflittiva passibile di annullamento in seno all’ordinamento da cui promana (ossia attraverso l’esperimento dei rimedi impugnatori all’uopo previsti dall’ordinamento sportivo), può dare luogo ad un illecito civile – suscettibile di tutela giurisdizionale ai sensi dell’art. 2043 Cod. civ. – solamente allorché il sistema dei ricorsi “interni”, complessivamente considerato, si sia dimostrato incapace di assicurare all’interessato una tutela ripristinatoria piena.
Nel caso di specie ciò sarebbe avvenuto per effetto del lodo Tnas, che in effetti ha infine annullato la misura sanzionatoria, per insufficienza di prove a carico dell’incolpato: per l’effetto – secondo la tesi sostenuta dall’appellante – “la restitutio in integrum della posizione giuridica dell’interessato si è realizzata, con pienezza di risultati, nell’ambito ed in forza dei mezzi di tutela apprestati dall’ordinamento sportivo, volontariamente accettati, nella loro configurazione sistemica, da tesserati ed affiliati in virtù dei vincoli derivanti dall’adesione ai legami associativi”.
Come detto, il Supremo Consesso non ha condiviso tale impostazione. Invero, lo “scrutinio di merito ancorato ad una visione unitaria dell’architettura complessiva del sistema giustiziale da cui promanano i verdetti disciplinari” ipotizzato dalla Figc, ossia una fattispecie a formazione progressiva il cui “punto di approdo” sarebbe dato dalla decisione di ultima istanza, è evidentemente frutto di una scorretta sovrapposizione tra la responsabilità delle singole Federazioni sportive che di volta in volta vengano ad irrogare sanzioni disciplinari ai propri tesserati e l’eventuale responsabilità del Coni (correttamente non dedotta dall’allora ricorrente calciatore), in ragione dei provvedimenti conclusivamente adottati dal giudice sportivo (nel caso in esame, il Tnas), nella sua qualità di organo (non della singola Federazione, bensì) del Comitato olimpico nazionale.
Gli organi della giustizia sportiva, infatti, ancorché non svolgenti funzioni giurisdizionali ma, al più, amministrative, devono per statuto porsi in posizione di terzietà ed indipendenza rispetto alle parti della vertenza (ossia gli atleti da una parte e le Federazioni affiliate al Coni dall’altra), il che impedisce di confondere il procedimento amministrativo volto all’adozione della sanzione disciplinare (che inizia con il deferimento dell’atleta da parte della Procura federale e si conclude con l’irrogazione o meno di una misura sanzionatoria) con quello, giustiziale, che prende il via con l’impugnazione di quest’ultima avanti al giudice sportivo e si conclude con la decisione di ultima istanza.
Si tratta cioè di due procedimenti distinti per genesi e per ratio, non di momenti diversi di un’unica fattispecie a formazione progressiva.
In pratica, proprio il fatto che il Tnas abbia disposto l’annullamento della sanzione disciplinare inflitta dalla Figc dimostra l’illegittimità di tale provvedimento e, dunque, il primo presupposto di ordine logico per un’eventuale responsabilità da fatto illecito. Invero, i giudici di appello hanno rammentato che la riscontrata illegittimità dell'atto rappresenta, nella normalità dei casi, l'indice della colpa dell'Amministrazione – indice tanto più grave, preciso e concordante quanto più intensa e non spiegata sia l'illegittimità in cui l'apparato amministrativo sia incorso – spettando in tal caso a quest’ultima l’onere di provare l'insussistenza dell’elemento soggettivo di cui trattasi.
Per scaricare la sentenza vai al Massimario G.A.R.I.
Rodolfo Murra
(24 agosto 2018)
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