CORTE DI CASSAZIONE
Licenziato chi parla male dell'azienda sui social network
Per la Suprema Corte la diffamazione sui social network nei confronti del proprio datore di lavoro è giusta causa di licenziamento.
Si può erroneamente pensare che utilizzare espressioni offensive e diffamatorie sui social network contro il proprio datore possa non avere ripercussioni sulla propria stabilità lavorativa.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10280 del 27 aprile 2018, ha posto un punto fermo sulla questione: le critiche offensive del lavoratore postate sulla propria bacheca facebook creano un grave danno all’immagine aziendale ed hanno natura diffamatoria tale da giustificarne il licenziamento.
Facebook deve essere considerato come una spazio virtuale idoneo a raggiungere una serie indefinita di destinatari ed è quindi importante adottare tutte le necessarie cautele per evitare di incorrere in errori che possano pregiudicare le nostre vite.
Difatti, la lavoratrice era andata ben oltre il giusto contegno da adottare sui social network, scrivendo sulla propria bacheca face book frasi gravemente offensive e di disprezzo verso l’azienda e verso il proprio datore (anche se non era esplicitato il suo nome).
Questo, per la Corte, integra un ipotesi di diffamazione, ex art. 595 c.p., proprio per la potenzialità del mezzo di raggiungere una moltitudine di persone.
Il comportamento è di natura colposa, dato che la lavoratrice non presentava fondati elementi di disequilibrio sul posto di lavoro, e, pertanto, “può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l'ulteriore prosecuzione del rapporto (Cass. 1.7.2016 n. 13512)”.
Quindi, con la sentenza in questione, è stato affermato che la natura altamente offensiva e diffamatoria del commento pubblicato sui social e l’idoneità di raggiungere un gran numero di persone determinano il venir meno del rapporto di fiducia tra datore e lavoratore, tale da essere giusta causa di recesso, ex art. 2119 c.c., per inadempimento contrattuale.
È comunque compito del giudice valutare la gravità dei comportamenti tenuti dal lavoratore e la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell'elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare, quale evento "che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto".
Marilù Fiore
(27 giugno 2018)
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