CORTE DI CASSAZIONE
Diffamazione aggravata ai danni di un vigile urbano durante un comizio elettorale
La lesione della reputazione altrui non si configura solo con l'attribuzione di un fatto illecito.
Un candidato Sindaco in un Comune pugliese era riconosciuto colpevole, con conformi decisioni di primo e secondo grado, del delitto di diffamazione aggravata, per avere, nel corso di un pubblico comizio, offeso la reputazione di un vigile urbano (responsabile del Nucleo di Polizia Annonaria) in servizio presso lo stesso Comune, affermando che questi si presentava presso gli esercenti attività commerciale e, incurante dello stato dei procedimenti amministrativi relativi al rilascio delle relative licenze, esigeva il pagamento delle sanzioni minacciando, altrimenti, la chiusura dell'attività.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione l’imputato affermando l’erroneità della pronuncia poiché l'attribuzione alla parte offesa del comportamento consistito nell'irrogare sanzioni a chi ne era meritevole non poteva dirsi né non corrispondente a quello concretamente tenuto dal pubblico ufficiale, né biasimevole e perciò suscettibile di esporre a dileggio il destinatario delle espressioni che tale comportamento descrivevano.
La Suprema Corte, Sezione Quinta, con sentenza n. 32645 del 16 luglio 2018, ha respinto l’impugnativa.
I giudici di legittimità, invero, hanno ribadito il principio a mente del quale integra lesione della reputazione altrui non solo l'attribuzione di un fatto illecito, perché posto in essere contro il divieto imposto da norme giuridiche, assistite o meno da sanzione, ma anche la divulgazione di comportamenti che, alla luce dei canoni etici condivisi dalla generalità dei consociati, siano suscettibili di incontrare la riprovazione della communis opinio.
E’ stato peraltro sottolineato nella decisione di rigetto del ricorso, quanto al profilo dell'elemento soggettivo, che il tenore delle espressioni utilizzate dall'imputato era tale da disvelare la consapevolezza da parte del soggetto agente di formulare un giudizio oggettivamente lesivo della reputazione professionale della persona offesa. Peraltro la Corte si è periziata di precisare che la condotta dell'imputato non sarebbe stata scusata neppure laddove l'imputato avesse divulgato un fatto vero, tenuto conto che, secondo l'interpretazione prevalente, persino l'errore sulla veridicità dei fatti o sulla correttezza dei giudizi oggetto della condotta incriminata non esclude il dolo richiesto dalla norma di cui all'art. 595 Cod. pen., dal momento che questo non ricade sugli elementi costitutivi della fattispecie, potendo il reato essere consumato anche propalando la verità, ed essendo sufficiente, ai fini della configurabilità dell'elemento soggettivo, la consapevolezza di formulare giudizi oggettivamente lesivi della reputazione della persona offesa.
Rodolfo Murra
(17 luglio 2018)
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