Privatizzazioni
Padoan rassicura: "le privatizzazioni non vanno a rilento". Ma serviranno a qualcosa?
Interpellato dai giornalisti a margine del convegno Bei-Cdp il Ministro dell'Economia smentisce il bilancio pessimistico di Repubblica in tema di privatizzazioni. Ma i primi dati non sembrano dargli ragione.
Mentre in Grecia si preannuncia un'estate rovente, animata dalle proteste contro il massiccio piano di privatizzazioni - si legga pure svendita - di innumerevoli proprietà statali, in Italia, stando a Repubblica, le privatizzazioni annunciate dal governo Renzi andrebbero "a rilento".
In un articolo pubblicato oggi a firma di Federico Fubini si paventa il rischio "flop" per il piano di privatizzazioni di Poste, Enel, Eni e Finmeccanica. L'opzione al vaglio del Ministero - sempre secondo Repubblica - sarebbe quella di cominciare a privatizzare già in autunno piccole quote (5%) di Enel ed Eni, cercando di attrarre investitori in vista delle future privatizzazioni di Poste e Finmeccanica.
In realtà le privatizzazioni non vanno a rilento secondo le dichiarazioni del ministro Padoan di questa mattina. Il titolare di via XX Settembre ha precisato di "non aver letto i giornali". Non serve infatti leggere i giornali per comprendere che i rendimenti di titoli del tesoro statunitensi o europei che siano sono ormai risicatissimi e che data l'ampia disponibilità di equity di numerosi fondi di investimento a livello globale, l'acquisizione a prezzi competitivi di quote di società da privatizzare può rappresentare una opportunità unica. Peccato però che l'appeal degli investitori sia concentrato tutto su pochi "gioielli di famiglia", ad esempio Poste Italiane. Seguono Eni ed Enel. Scarso interesse, invece, per Enav. Deludente la prima operazione, quella Fincantieri.
Il caso Fincantieri
Il palese flop della prima quotazione, quella di Fincantieri, andrebbe inteso come un campanello d'allarme per il Governo. Se inizialmente si pensava di quotare 104 milioni di euro dell'azionista Cassa Depositi e Prestiti e 600 milioni come aumento di capitale, si è poi scoperto che dal 16 al 27 giugno i tanto "interessati" fondi internazionali d'investimento avevano mostrato interesse per soli 12 milioni di euro di azioni. Una goccia nel mare. Pertanto si è deciso di ridurre i titoli da collocare e mutare il rapporto fra azioni destinate ad investitori istituzionali (banche, fondi, etc.) e retail (piccoli azionisti, titolari di conti correnti bancari). Se inizialmente si prevedeva di dedicare 563 milioni agli investitori istituzionali e solo 141 al retail, adesso la situazione è mutata: 401 al retail e soli 49 agli istituzionali. Ad oggi sono stati collocati circa 350 milioni di euro.
Insomma, se gli investitori non credono nel futuro di Fincantieri e non scommettono sul rendimento delle sue azioni, a Fincantieri e dunque anche allo Stato non resta altra soluzione se non quella di smollare le azioni agli ignari cittadini. Ecco dunque il senso delle entusiastiche pubblicità sulle reti nazionali.
Poste Italiane
Una frenata arriva anche dall'ad di Poste Italiane Francesco Caio, che in una nota del 2 luglio chiarisce: "vista la dimensione e la complessità del gruppo e i tempi che sono stati necessari per altre privatizzazioni, le scadenze rappresentano una grande sfida". Precisa però che si tratta di una sfida "a cui non intendiamo sottrarci", spiegando come sia stato "creato un team dedicato al coordinamento delle molte attività da completare prima della quotazione" e sia già pronta "una prima tabella di marcia per i prossimi mesi".
La privatizzazione riguarderebbe circa il 40% di Poste Italiane che resterebbe così sotto il controllo dello Stato, garantendo circa 4-5 miliardi di euro. Anche qui una goccia nel mare del debito pubblico (2100 miliardi di euro). D'altra parte Poste riesce a fare profitti grazie all'allontanamento progressivo dal suo core business. Vale la pena ricordare, infatti, che esercita un'attività bancaria senza dover pagare ai propri dipendenti lo stipendio dei lavoratori bancari. Gestisce inoltre per conto dello stato la raccolta dei buoni fruttiferi e dei conti correnti postali, riceve poi circa 700 milioni di euro all'anno dallo Stato per il servizio di recapito della corrispondenza in aree remote. E ottiene più della metà dei ricavi del gruppo dai servizi assicurativi.
Una volta quotata sarebbe difficile tenere lontana una sforbiciata al personale (145.000 dipendenti), specie tenendo conto dei precedenti internazionali. Royal Mail nel Regno Unito dopo una proficua privatizzazione ha subito recentemente un taglio di 1500 dipendenti su circa 150.000.
Il paradosso della privatizzazione di Poste Italiana è tuttavia un altro. Cedendo il 40% agli investitori, Poste continuerebbe a rimanere saldamente nelle mani dello Stato, e continuerebbe a ricevere lauti contributi statali. Insomma, lo Stato manterrebbe il suo ruolo di monopolista, lasciando ai privati la possibilità di godere di questo privilegio. In cambio di cosa? Di 4-5, per i più ottimisti 8 miliardi di euro. Ossia circa 4-5 anni di utili (l'utile netto nel 2013 è stato pari ad 1 miliardo di euro). Cui prodest?
Il progetto del Governo
Il paradosso delle privatizzazioni è che i ricavi presunti dovrebbero coprire la crescita inesistente. Per Padoan, infatti, già nel 2014 dalle privatizzazioni si dovrebbero ricavare circa 0,7% di punti di crescita del PIL ossia 11 miliardi di euro. Difficile pensare che la crescita possa essere drogata dalle dismissioni. E' come se un lavoratore che ha perso il lavoro e non fa nulla per cercarne uno nuovo, non "riconverte" le proprie capacità, non viene ritenuto credibile dalle banche quando chiede loro un prestito per aprire una nuova attività, decidesse per produrre ricchezza di vendere i suoi beni. Il risultato? Dopo qualche mese sarà sempre senza lavoro, ma anche in una casa vuota, privo di macchina e computer, e i soldi incassati li avrà consumati in cibo gas luce e telefono. Insomma, visto che lo Stato non può svendere la zavorra, ossia le società prive di attrattive per gli investitori, le strutture burocratiche che pesano sul suo bilancio, decide di vendere quote azionarie delle uniche società che hanno un minimo di appeal, che producono e fanno profitti. Alla fine rischia di ritrovarsi più povero, con un debito pubblico sempre crescente e una frenetica ansia di tassazione per garantire la sopravvivenza al suo apparato.
Francesco Colafemmina
(4 luglio 2014)
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