Commercio preziosi
Restituita la licenza al gioielliere che acquista preziosi di due morti ammazzati per rapina
La revoca della licenza di P.S. non deve eccedere i limiti di proporzionalità nella sentenza del Consiglio di Stato.
La mattina del 15 aprile 2009, in una gioielleria napoletana, il figlio del titolare di una gioielleria ha acquistato da un cittadino romeno oggetti preziosi usati (due fedi, due orecchini ed una targa d’oro) che sono risultati provenienti da una rapina aggravata, conclusasi con il duplice omicidio dei rapinati la notte precedente.
Il Questore ha conseguentemente adottato nei confronti del titolare:
a) in data 17 aprile 2009, ai sensi degli artt. 128, comma 1, e 17-bis, n. 3, del TULPS, una sanzione amministrativa estinguibile con pagamento di euro 308,00;
b) in data 18 aprile 2009, un provvedimento di sospensione, ai sensi dell’art. 100 TULPS, della licenza rilasciata ai sensi dell’art. 127 per l’attività di commercio di oggetti preziosi, a causa del nocumento per l’ordine e la sicurezza pubblica e l’allarme sociale per la superficialità e negligenza manifestate con detto acquisto;
c) in data 5 maggio 2009, un provvedimento di revoca della licenza predetta, ai sensi degli artt. 8, 10, 11, 127 e 128 TULPS, ritenendo che il figlio del titolare esercitasse di fatto l’attività, che avesse tenuto un comportamento gravemente negligente in occasione di detto acquisto, e che ciò denotasse anche la mancanza di affidabilità in capo alla titolare della licenza.
I provvedimenti citati sono stati impugnati dinanzi al TAR Campania, il quale con sentenza del 2009 ha respinto il ricorso.
Da qui l’appello, del quale si è occupato il Consiglio di Stato (sez. III), che con decisione n. 4146 del 10 settembre 2015, lo ha invece parzialmente accolto.
Dopo aver premesso che, effettivamente, alla luce della ricostruzione della vicenda che poteva trarsi dagli atti, l’acquisto dei preziosi frutto della rapina con omicidio avvenuta la notte precedente, può ritenersi compiuto, oltre che senza la scrupolosa osservanza degli adempimenti previsti dalla legge, con superficialità non ammissibile per chi esercita l’attività in questione, i giudici di Palazzo Spada, tuttavia, riguardo al provvedimento di revoca della licenza, hanno statuito che la revoca “appare eccedere i limiti di congruità e proporzionalità cui deve conformarsi la misura sanzionatoria inflitta”.
Il giudice di appello ha osservato che, quanto alle sanzioni interdittive, la motivazione del provvedimento di revoca era basata essenzialmente sul rilievo che la notizia della rapina con omicidio aveva avuto larga diffusione sui media, che il commesso (da ritenersi il “vero gestore del negozio”) «avrebbe dovuto avvertire immediatamente l’Autorità di P.S. visto che gli oggetti acquistati apparivano palesemente di illecita provenienza (due vecchie fedi nuziali, due orecchini da donne ed una targa d’oro, sbriciolata per occultarne l’identificazione) e visto che il venditore era un giovane cittadino romeno, senza fissa dimora e privo di permesso di soggiorno, elementi quest’ultimi che avrebbero dovuto indurre il commerciante acquirente ad un moto di allerta, stante la copiosa cronaca giudiziaria di questi ultimi mesi …».
La maggior parte di questi presupposti, però, non ha trovato – secondo il Consiglio di Stato – adeguato riscontro negli atti.
Anzitutto, che l’attività fosse in realtà gestita dal figlio dell’appellante non può essere desunto dal solo episodio della compravendita in questione, senza alcuna ulteriore verifica. In secondo luogo, a ben vedere, nel provvedimento impugnato la contestazione della gestione da parte di soggetto diverso dal titolare della licenza è soprattutto rivolta a stabilire un collegamento tra l’episodio dell’acquisto dei preziosi e le sorti del titolo di p.s.; ma in ordine a tale aspetto non vi sono espresse e specifiche argomentazioni che potessero individuare nella supposta gestione di fatto un’ipotesi di abuso del titolo, di per sé sanzionabile.
Poi, come ritenuto dal giudice penale, al momento dell’acquisto la notizia del delitto non era ancora di dominio pubblico, e comunque non vi è alcuna prova che i gioiellieri fossero al corrente di quanto accaduto nella notte.
La circostanza che il venditore, infine, fosse senza fissa dimora non era conoscibile dall’acquirente, così come del resto la sola nazionalità (che non comportava la necessità del permesso di soggiorno visto che la Romania era oramai parte, già all’epoca dei fatti, dell’Unione Europea) non poteva legittimamente far nascere un sospetto.
Rodolfo Murra
(14 settembre 2015)
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