Riforma della P.A.
Un pensionato puo' fare l'assessore solo a titolo gratuito
La norma e' stata scritta per favorire il "ricambio generazionale", ma si registrano effetti "distorsivi" che forse andrebbero meglio approfonditi.
Al culmine delle polemiche tra le parti contrapposte in tema di riforme istituzionali ed elettorali, bisogna tener presente -come segnalato nei giorni scorsi dal Quotidiano della P.A. nell’articolo che affrontava la questione del pericolo di “ingorgo” in Parlamento- che tra poche settimane scadrà il termine per l’approvazione dei disegni di legge di conversione di alcuni decreti legge approvati dal Governo Renzi il mese scorso.
Tra questi, visto l’interesse e le polemiche che ha trasversalmente provocato, va ricordato il Decreto Legge n. 90/2014, sulla Riforma della P.A., pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24 giugno ed entrato in vigore il giorno dopo. Attualmente è in corso alla Camera l’esame degli emendamenti.
Leggendo il testo del decreto mi sono soffermato, in particolare, sull’articolo 6, che tratta del “divieto di incarichi dirigenziali a soggetti in quiescenza” e che, modificando la norma contenuta in un decreto convertito del 2012, ora stabilisce il divieto per le amministrazioni pubbliche -esclusi gli organi costituzionali- di conferire ai soggetti in quiescenza (sia del settore pubblico, che di quello privato) “incarichi dirigenziali o direttivi o cariche in organi di governo delle amministrazioni di cui al primo periodo. Sono comunque consentiti gli incarichi e le cariche conferiti a titolo gratuito”.
La norma, nelle intenzioni del Governo, vuole favorire il c.d. “ricambio generazionale”, ma con la modifica dell’ultimo decreto legge comporta, ad esempio, che un pensionato, sia pubblico che privato, che può contare su un assegno di 1.000-1.200 euro, non può diventare assessore di un comune, a meno che non lo faccia a titolo gratuito.
La cosa, a prima vista, potrebbe anche incontrare consensi generalizzati, ma approfondendo tutti i casi specifici, risulta qualche anomalia difficilmente giustificabile.
Passi per chi è andato in quiescenza potendo contare su assegni sostanziosi. Ma se una persona, dopo aver lavorato tutta la vita mantenendo la sua famiglia con uno stipendio modesto, ad un certo punto decide di impegnarsi nella vita pubblica, occupandosi della sua comunità e decide di farlo praticamente a tempo pieno, proprio perché è in pensione; per quale motivo non dovrebbe avere diritto ad incassare le poche centinaia di euro di indennità prevista per gli amministratori dei comuni; anche quelli con diverse decine di migliaia di abitanti.
Si dà sempre per scontato, sbagliando, che tutti quelli che si occupano di amministrazione pubblica lo facciano per fare i propri interessi o “per rubare soldi pubblici”. Sono evidenti e numerosissimi i casi di corruzione di cui si occupano le cronache, ma non è con questi tagli lineari, generalizzati e suggeriti da motivazioni vagamente moralistiche, che si potrà sperare di “moralizzare” la vita pubblica o risanare i conti pubblici.
La corruzione va combattuta con tutti i mezzi consentiti, ma non c’entrano nulla i modesti emolumenti degli assessori di comuni piccoli e medio piccoli. Oltretutto, per quale motivo un soggetto che non è in pensione ha diritto all’indennità di assessore, mentre chi lo è deve farlo gratuitamente? Dove sta la ratio di questa strana norma? Si vuole favorire il ricambio generazionale? Ma questa cosa non c’entra nulla.
Il ricambio generazionale deve avvenire dappertutto con modalità caratterizzate da equilibrio e buonsenso, anche per non disperdere il patrimonio di esperienza della gran parte dei lavoratori, pubblici e privati, che hanno sempre fatto il loro dovere con impegno, onestà e dedizione.
Ho sentito parlare di iniziative per modificare questa distorsione, ma non ne ho trovato traccia tra gli emendamenti. Se effettivamente questo è l’effetto che si voleva ottenere, a mio parere si finisce con il dare un segnale sbagliato; scoraggiando indirettamente tante brave ed oneste persone, che trovandosi in quella situazione potrebbero anche sentirsi spinti a non impegnarsi, proprio perché -mettendo sullo stesso piano chi ha redditi da pensione oltre i 100.000 euro e chi si deve accontentare di cifre attorno ai ventimila euro l’anno- si finisce per compiere un’ingiustizia e, tutto sommato, anche con il rendersi un po’ ridicoli.
Ma il Governo voleva veramente ottenere questo effetto? Devo dire, peraltro, che nei pareri forniti dalle varie associazioni sentite prima dell’approvazione del decreto legge, non ho trovato traccia di voci contrastanti su questa materia. Debbo, quindi, pensare, che sia sfuggito questo tipo di “effetto pratico”, oppure che non sia ritenuto un “risultato distorsivo” rispetto alla ratio della norma.
Ma se è così, per quale motivo “non si applica agli incarichi e alle cariche presso organi costituzionali”?
Moreno Morando
(23 luglio 2014)
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