Lavoro
Articolo 18: come e perché sarà riformato
Si moltiplicano le voci che vorrebbero fra gli obiettivi del Governo Renzi la riforma dell'articolo 18. Cosa vuol dire flessibilità? E perché l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori è al centro del dibattito politico degli ultimi anni?
I sindacati latitano in questa fine estate 2014. Durante la trasmissione "Di-Martedì", il nuovo talk show diretto da Giovanni Floris, è stato il comico Maurizio Crozza a trovare per loro la giusta definizione: "sono rimasti fermi agli anni '70". Ed è negli anni '70 che l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori veniva esibito come un trofeo nella lotta fra operai e industrie. Oggi, a distanza di 40 anni cosa resta di quelle battaglie?
Il Governo Renzi non nasconde la tentazione di mettere mano ad una riforma dell'art.18 in grado di "superarlo". Il discorso del premier Renzi ieri in parlamento è stato molto chiaro: "al termine dei mille giorni il diritto del lavoro non sarà quello di oggi. Io ritengo che non ci sia cosa più iniqua in Italia di un diritto del lavoro che divide i cittadini in cittadini di serie A e di serie B. Se sei un partita iva non conti niente. Se sei un lavoratore di un'azienda sotto i 15 dipendenti, non hai alcune garanzie. Se stai sopra sì. Questo è un mondo del lavoro basato sull'apartheid."
In sostanza: se ci sono maggiori garanzie per aziende con più di 15 dipendenti, bisognerebbe ridurle per non far sentire discriminate le aziende più piccole?
Secondo Palazzo Chigi si tratta di una questione di forma più che di sostanza: "ogni anno ci sono circa 40mila casi affrontati sulla base dell'articolo 18, di questi l'80% sono risolti con un accordo, ne restano 8mila. Di questi 8mila, in 4.500 il lavoratore perde totalmente, in 3.500 il lavoratore vince e in due terzi dei casi ha il reintegro. Insomma, come ha già detto il premier, si sta discutendo di una cosa che riguarda non più di 3mila persone l’anno".
Quello che da Palazzo Chigi non dicono è che l'articolo 18 scritto, è vero, in un'epoca nella quale la dimensione delle aziende italiane era sicuramente più grande, aveva l'obiettivo di fungere da deterrente. Ed era un deterrente valido specialmente per quei casi di dipendenti attivi nel sindacato che ponevano sempre nuovi ostacoli e rivendicazioni ai propri datori di lavoro. Bisognava pensarci su due volte prima di licenziarli, visto che prima o poi si poteva rischiare di doverli reintegrare. Oggi però gli anni '70 sono ormai alle spalle, le dimensioni delle aziende si sono ridotte drasticamente, il lavoro e prima ancora l'impresa in Italia è in affanno. Dunque perché occuparsi di questo articolo 18 che tutto sommato ha fatto il suo tempo e proprio per questo potrebbe essere lasciato lì dov'è?
In realtà sembrerebbe esserci una forte tensione simbolica, ma anche uno specifico progetto. Di flessibilità nel mercato del lavoro se ne parla sin dal governo D'alema del 1999. E' una ricetta economica teorica secondo la quale, semplificando, se le aziende possono licenziare con maggiore facilità i propri dipendenti in un periodo di recessione, hanno l'opportunità di ritornare a crescere sgravandosi di un eccessivo costo del lavoro. Questo dovrebbe aiutarle a passare senza problemi attraverso la fase recessiva e a riassumere dipendenti quando ritorna la crescita.
Questa teoria economica è applicata in grande stile negli States ed è alla base di quei "structural adjustements" richiesti dal Fondo Monetario Internazionale in cambio dei suoi prestiti di denaro. Alla flessibilità si aggiunge solitamente la possibilità di ridurre i salari e le ore di lavoro. Si tratta infatti di due strategie economiche che mirano allo stesso obiettivo: snellire i costi per le imprese senza indurle alla chiusura, consentendo così alle stesse di riassumere i dipendenti quando la tempesta sarà passata. Il problema è però che spesso queste misure non solo non aiutano la tempesta a passare, ma finiscono col trasformarla in un devastante uragano. Fuor di metafora aggravano la fase recessiva senza portare alcuna soluzione né a breve né a medio-lungo termine.
A spiegarlo è stato l'economista statunitense premio nobel Joseph Stigliz: "L’idea che i problemi economici sarebbero risolti con un mercato del lavoro più flessibile è stata completamente screditata dalla crisi. Gli Stati Uniti hanno il mercato del lavoro più flessibile tra i paesi industrializzati occidentali, e ancora oggi, un americani su sei è in cerca di lavoro a tempo pieno senza trovarlo. Non ha funzionato." Secondo Stigliz: "Non bisogna puntare sulla flessibilità. Dobbiamo chiederci come spostare le persone dai settori vecchi ai nuovi. Questo implica flessibilità, ma anche sicurezza e formazione. Non bisogna aumentare l’ansia dei lavoratori, questo non fa che impedire il buon funzionamento del mercato del lavoro."
Stigliz richiama così la teoria keynesiana secondo la quale in una fase recessiva, anche in presenza di salari e prezzi flessibili, non è affatto detto che si torni alla piena occupazione, che è determinata dalla domanda aggregata (data dalla somma di consumi, investimenti, spesa pubblica e domanda estera). Insomma se si tagliano i salari o si licenziano più facilmente i dipendenti questi non potranno più acquistare i beni che il mercato produce, andando ad inasprire la spirale recessiva.
A questo punto però è inutile chiedersi perché dovremmo riformare l'articolo 18. La risposta è un rumor che circola fra i banchi della maggioranza: i 1000 giorni di Renzi sono l'ultima spiaggia per l'Italia. Dopo non potrà che arrivare la Troika (BCE, UE, FMI), ossia il soggetto economico-burocratico che più di ogni altro negli ultimi anni sta spingendo verso la "flessibilità". L'esempio maturo è quello della Grecia: dopo una innumerevole serie di licenziamenti e di tagli dei salari la disoccupazione sembra arrestarsi. Ma in realtà non si tratta di un positivo effetto della flessibilità, ma di un riversamento in una Grecia più competitiva (leggi più economia per le imprese) di società che in altri paesi europei sono ancora "costrette" a pagare salari sostanziosi e a rispettare stringenti statuti dei lavoratori. Un inseguimento al ribasso, dunque, che dà vita ad una effimera ed illusoria crescita, proprio quando dovrebbero essere le imprese e gli stati ad innovare ed investire.
Francesco Colafemmina
(17 settembre 2014)
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